#Foibe o #Esodo? «Frequently Asked Questions» per il #GiornodelRicordo


[Oggi pubblichiamo un importante testo di Lorenzo Filipaz.
Lorenzo è triestino e figlio di un esule istriano. Dal ramo materno è di ascendenza slovena. Fa parte del gruppo di inchiesta su Wikipedia «Nicoletta Bourbaki». Appassionato delle storie della sua terra di confine, da anni ha intrapreso un percorso di ricerca e autoanalisi sul cosiddetto «Esodo giuliano-dalmata». L’intento è quello di capire cosa sia andato storto, per quali ragioni l’esodo da Istria e Dalmazia sia diventato una narrazione così platealmente assurda e antistorica, e come mai i figli di una terra meticcia siano diventati i pasdaran del nazionalismo.

L’approccio è quello di una seduta psicoanalitica, una sorta di terapia post-traumatica. Terapia in ritardo di sessant’anni, ma più che mai utile agli odierni discendenti di esuli, per disinnescare certi meccanismi difensivi che favoriscono reticenze e strumentalizzazioni.

Qui sotto trovate ventiquattro risposte ad altrettante domande sull’esodo istriano. Domande basate su quell’insieme di stereotipi e omissioni che ci piace chiamare «l’ideologia del Giorno del ricordo». Ventiquattro chiarimenti, uno per ogni ora del 10 febbraio. Diverse fotografie sono “finestre” aperte su interessanti approfondimenti, ma consigliamo di aprirle solo dopo aver letto le FAQ preparate da Lorenzo. Buona lettura. WM]

di Lorenzo Filipaz

«Il vero guaio è che gli sciocchi la violentano, la vita, specie quella altrui, illusi di togliere la complicazione.»
Giulio Angioni, Gabbiani sul Carso

Febbraio: Come ogni anno mi preparo alla valanga di imposture che si accompagna al cosiddetto Giorno del Ricordo. Capi di stato, di governo e di partito di qualsivoglia colore faranno a gara a chi la spara più grossa o a chi intona più forte la solita solfa. Vediamo quest’anno a che altezza arriva l’asta degli infoibati, e se è un’annata buona possiamo contare su un bell’incidente diplomatico.

Per un giorno tutti si riempiranno la bocca di confine orientale per poi dimenticarsene per gli altri 364 giorni. È l’effetto bagnasciuga: un’alternanza che favorisce le panzane più pindariche e taglia le gambe a qualsiasi reale approfondimento. Sulla battigia chiunque può deporre ciò che vuole, tracciare nella sabbia le sparate più inaudite, tanto la risacca cancellerà tutto e la spiaggia sarà pronta all’uso per l’anno successivo.

Il 4 febbraio 2015, durante una puntata di «Porta a porta» dedicata alle foibe, viene mostrata questa foto con riferimento alle «esecuzioni sommarie» compiute a Trieste dai partigiani di Tito. Solo che la foto testimonia un'esecuzione sommaria di partigiani compiuta dai nazisti il 29 maggio 1944. Gli impiccati sono ventisei giovanissimi di Premariacco e di S. Giovanni al Natisone. Del falso si è accorto Marco Barone, clicca per leggere il suo post, che a sua volta linka a una scheda storica su quell'eccidio.

Il 4 febbraio 2015, durante una puntata di «Porta a porta» dedicata alle foibe, viene mostrata quest’immagine proprio mentre si parla di «esecuzioni sommarie» compiute a Trieste dai partigiani di Tito. La foto, però, mostra un’esecuzione sommaria compiuta dai nazisti il 29 maggio 1944. Gli impiccati sono ventisei giovanissimi di Premariacco e di S. Giovanni al Natisone. Dell’accostamento truffaldino si è accorto Marco Barone, clicca per leggere il suo post, che a sua volta linka a una scheda storica su quell’eccidio.

Non sono mai riuscito ad abituarmi: ogni 10 febbraio una sgradevole sensazione mi corre giù per la schiena. Sarà perché uno dei miei genitori viene da lì, da quell’Istria piccola e povera che spesso si contrae e diventa enorme e ricchissima, sarà perché quel genitore non c’è più, sarà perché vivo a Trieste, città rimasta ferma al ‘54, dove di foibe ed esuli si parla 400 giorni all’anno.

Ma questa celebrazione parla veramente della nostra storia? Questa è la domanda che faccio sempre agli esuli rimasti, che ormai sono perlopiù i figli, quelli emigrati con la famiglia prima di aver raggiunto l’età della ragione. Quelli per cui l’infanzia è stata una baracca in un campo profughi, con i suoi gelidi spifferi di Bora, i giochi e le amicizie con la muleria (= gioventù) di paesi lontani, improvvisamente divenuti vicini. Figli di un popolo bombardato di propaganda nazionale, di italianità millenaria e altre carabattole vuote a sommergere una ben più complessa realtà, dove magari una nonna o un nonno parlava dialetto croato che guardacaso mamma e papà non parlavano più…

Il fatto è che di esuli fin da subito sono stati altri a parlarne, altri hanno deciso quale fosse la loro storia fin da prima di diventare esuli. La ricchezza del meticciato in questa terra mistilingue è stata negata ai suoi abitanti ai quali è stata imposta dall’alto una narrazione unitaria di purezza. Chi ha dissentito o anche solo “diversificato” questa verità ufficiale ha perduto il diritto di rappresentanza, per le associazioni i “dissidenti” cessano di essere “esuli” e persino “istriani” (o giuliano-dalmati). Oggi a parlare sono spesso i nipoti che con la scusa dei drammi familiari giustificano la loro adesione alla destra xenofoba e ultranazionalista, magari ignorando che quello stesso nonno esule a cui ascrivono il loro credo nazionale se ha rischiato di crepare è stato davanti ad un mitra nazista piuttosto che sul ciglio di una foiba “rossa”.

Quando si inizia a parlare di esodo si finisce sempre col parlare di qualcos’altro. Queste Frequently Asked Questions – cantieri aperti più che risposte definitive – si propongono di neutralizzare quel qualcos’altro, i depistaggi che deviano l’approfondimento e impediscono di affrontare il passato.
Iniziamo a parlare veramente di esodo, come se fossimo tutti sul lettino di uno psicoterapeuta, perché è proprio questo che è mancato alla mia gente: una grande terapia di gruppo per superare il trauma dello sradicamento e la vergogna della profuganza. Una reale guarigione si ottiene però affrontando il proprio passato in maniera matura, analizzandolo nelle adeguate proporzioni, per esempio iniziando a parlare di “esodi”, perché furono diverse ondate da diversi luoghi, in diversi anni e con diverse motivazioni. Ogni esperienza dolorosa è unica nel suo genere, prendere coscienza della peculiarità della propria sofferenza permette poi di empatizzare con il dolore altrui smantellando l’insana idea di essere stati gli unici a soffrire: abbiamo abbandonato case, terre – è vero – molti hanno abbandonato terre in colonato e case in comodato a dirla tutta, ma altrove in Italia ci sono state intere città rase al suolo con centinaia di migliaia di sfollati, oppure interi paesi sono stati cancellati dalla faccia della terra con tutti i suoi abitanti, e non occorre andare a Marzabotto o a Sant’Anna di Stazzema, basta andare poco lontano dall’Istria, a Lipa o a Podhum per esempio.

Prima di ogni cosa dobbiamo ripulire questa storia da quei pensieri ricorrenti nocivi, vecchi e ambigui che parlano di purezza attraverso metafore agricole rimettendo in circolo sotto mentite spoglie vittimarie la religione del blut und boden, sangue e suolo, una retorica che prima ha amputato la nostra identità e poi ci ha trascinato assieme a tutta l’Europa nella mattanza. Oggi non a caso questa religione trova il suo perfetto alveo nella metafora carsica delle foibe, nel mito di una terra le cui viscere traboccherebbero di sangue italiano.

1. Cosa si commemora veramente nel «Giorno del Ricordo»?

La Pace!
Il 10 febbraio 1947 furono firmati i Trattati di Parigi che sancirono la pacificazione dell’Europa. Dal 2004 l’Italia è diventato l’unico paese del continente a commemorare quella data con il lutto al braccio.
La legge 30 marzo 2004 n. 92, con la scusa di ricordare in pratica le vittime della pace, costituisce potenzialmente un vulnus per gli stessi valori espressi dalla Costituzione della Repubblica Italiana, fondata per l’appunto sulla pace oltre che sulla Resistenza e sulla sconfitta del nazifascismo. Peraltro l’ Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), prima promotrice dell’istituzione della Giornata del Ricordo, nel suo statuto (Art. 2) si adoperava per «agevolare il ritorno delle Terre Italiane della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia in seno alla Madrepatria, concorrendo sul piano nazionale al processo di revisione del Trattato di Pace», in netto contrasto con il Trattato di Helsinki del 1975 che sanciva l’inviolabilità delle frontiere europee, principio su cui veniva poi fondata l’OSCE e quindi la Comunità Europea (l’ANVGD ha poi modificato quell’articolo alla chetichella nel novembre 2012, con una clausola sui “rimasti” di cui parleremo in seguito).
Il 10 febbraio si configura quindi come la Giornata nazionale del Revanscismo, dove tutti (specialmente gli alunni delle scuole), sono tenuti a manifestare un po’ di “sano” neoirredentismo di stato in perfetta continuità con il vecchio mito della vittoria mutilata.

2. L’irredentismo non è forse solo un ideale o un’innocua nostalgia?

Roberto Menia, braccio destro di FIni

Il… braccio destro di Fini. Roberto Menia, ex-deputato del PdL e poi di FLI, ex-sottosegretario all’ambiente, autore della legge che ha istituito il «Giorno del Ricordo». Attualmente è segretario generale del Comitato Tricolore per gli Italiani nel Mondo. Per un esempio di brillante azione a tutela degli italiani nel mondo, clicca sulla foto e leggi l’articolo «Blitz missino a Belgrado».

Gli irredentismi hanno spesso trascinato i propri paesi in disastrose guerre sanguinarie. Con la scusa della difesa di una propria minoranza nazionale oppressa si sono giustificate aggressioni e oppressioni ben peggiori. Dalla Megali Idea greca, ai Sudeti, a Danzica, e ancora Nagorno-Karabakh, Erzegovina, Kosovo… Gli irredentismi e i revanscismi hanno una grande capacità di quiescenza, possono covare per decenni, se foraggiati sono potenzialmente immortali: una riserva sempre disponibile di nazionalismo e odio etnico.
Se si ritiene che questi scenari siano lontani e non inerenti con la nostra celebrazione basti ricordare che il primo firmatario della proposta di legge del giorno del Ricordo, il triestino Roberto Menia, salpò alla volta di Belgrado assieme a Fini e Tremaglia nel 1991 per contrattare con la Serbia di Milosevic la cessione di Istria e Dalmazia in cambio di supporto politico e militare [1], come dire che stava per trascinare l’Italia nel carnaio balcanico. Oltre a ciò associazioni neoirredentistiche fecero una colletta per una forza internazionale composta dal 30% di italiani da mandare in Krajina contro la Croazia [2].
Attenzione a riposare troppo sulle garanzie comunitarie: i nazionalisti percepiscono sempre le compagini statali sovranazionali come provvisorie, si tratti dell’impero Austroungarico, della Jugoslavia o dell’Unione Europea. In attesa della loro caduta essi preparano la resa dei conti. Il moltiplicarsi di partiti nazionalisti e xenofobi nell’attuale scenario europeo dà una piega inquietante a questa prospettiva.

3. Perché la «Giornata della memoria» va bene e il «Giorno del ricordo» no?

La monetizzazione politica della Shoah da parte del sionismo ha sempre colpito il neoirredentismo nostrano, che ha cercato di mutuarne spregiudicatamente i meccanismi di legittimazione. Nel dopoguerra l’unico frasario disponibile per riprodurre il paradigma vittimario era quello dell’olocausto, così si iniziò a parlare di «genocidio delle genti giuliane», facendo inorridire storici come Giovanni Miccoli dell’IRSML, che lo definì un «accostamento aberrante» [3].
Poi arrivò la guerra nell’ex-Jugoslavia, il massacro di Srebrenica permise di giocare sullo stereotipo dell’atavica barbarie orientale-balcanica e così un nuovo vocabolo, la “Pulizia etnica” (ma in verità esisteva già “bonifica etnica”, usata storicamente per descrivere la snazionalizzazione della Venezia Giulia operata dal fascismo), soppiantò il genocidio che tuttavia rimase in sordina per poi riemergere proprio nel linguaggio del giorno del Ricordo, strategicamente piazzato due settimane dopo quello della Memoria a scimmiottarne nome e forma.
Lo scopo malcelato è quello di ingenerare confusione – vedasi le «Foibe Ardeatine», tragicomica crasi segnalata da Federico Tenca Montini [4] – tra due episodi incomparabili: da un lato una commemorazione mondiale dal significato universale, dall’altro una commemorazione di impianto nazionale. Uno squilibrio che si manifesta a ogni livello di questo accostamento: emigrazione equiparata a deportazione, epurazioni politiche e rese dei conti equiparate a sterminio e massacri indiscriminati.
Interessante è anche confrontare i significati simbolici dei giorni prescelti dalle due commemorazioni: mentre nella giornata della memoria si celebra la liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche – la fine del male per gli ebrei – dall’altra parte si celebra la firma del trattato di pace – l’inizio del male secondo una certa narrazione esule – un male che continua e che idealmente soltanto la restituzione delle terre sottratte o dei “beni abbandonati” potrebbe chiudere.
Se proprio si volesse prendere ad esempio la giornata della memoria si dovrebbe indicare una data che celebrasse la fine delle ostilità, magari il 10 novembre, firma del Trattato di Osimo. Nessuna associazione di esuli lo accetterebbe, quella data in zona suscita ancora malumori (riemersi persino in recenti avventure politiche, come MTL) ma se non altro significò la normalizzazione dei rapporti italo-jugoslavi e la fine definitiva delle ostilità fra i due paesi. In realtà il giorno del Ricordo non ricopia quello della memoria, ma ne è un detournement: si ricalcano gli aspetti emotivi ma si perseguono diverse finalità.

4. Dovremmo ritornare a non parlarne, continuando il “silenzio assordante”?

Questo è un topos della propaganda revanscista, ma il presunto silenzio sulle foibe è legato ad un altro silenzio, ben più pesante: quello sui crimini di guerra italiani, eternamente  insabbiati. L’opinione pubblica italiana ignora che l’unica vera pulizia etnica nelle terre a cavallo del confine orientale fu quella operata dall’esercito italiano ai danni delle popolazioni civili slovene e croate negli anni dell’invasione della Jugoslavia.
C’è un elastico che lega questi crimini di guerra italiani alle foibe.  Nell’immediato dopoguerra si parlò di foibe in maniera isterica e ossessiva, quando la questione di Trieste era sul tavolo e le Nazioni unite chiedevano la consegna dei criminali di guerra italiani. Del Boca, citando Focardi, scrive:

«[…] nel luglio 1945, infine, erano gli stessi Alleati a inoltrare al governo di Roma le liste dei presunti criminali di guerra consegnate da vari paesi (Iugoslavia, Grecia, Albania, Etiopia, Gran Bretagna, Francia, URSS) alla Commissione delle Nazioni Unite. L’Italia, per almeno tre anni, non rispondeva alle ripetute richieste e pressioni, adottando un’ambigua strategia tesa soltanto a prendere tempo. Ma non basta […] il Ministero degli Esteri raccoglieva una contro-documentazione, il cui solo scopo non era quello di “accertare le eventuali responsabilità delle persone accusate dalla Iugoslavia, ma di raccogliere prove sulla loro innocenza e di ribaltare le accuse sui partigiani iugoslavi. […] Il Ministero degli Esteri apprestò anche una controlista di criminali di guerra iugoslavi con circa 200 nominativi. In cima alla lista figurava il Maresciallo Tito […]» [5].

Penso che agli Alleati bastò leggere il primo nome per sentirsi presi per il culo a sufficienza, sicché risposero minacciando di venire a prendere loro stessi i criminali italiani per consegnarli alla Iugoslavia. Solo allora De Gasperi costituì una commissione d’inchiesta presso il Ministero della Guerra. Il problema era che i criminali italiani erano pezzi grossi dell’esercito, non solo fascisti, per cui con vari cavilli si archiviò il tutto senza dar luogo mai a nessun processo. Sempre Del Boca rileva che proprio per il fatto di aver scelto di non consegnare i propri criminali di guerra, il governo italiano ritenne prudente rinunciare a chiedere alla Germania la consegna dei nazisti macchiatisi di crimini in Italia tra il ‘43 ed il ’45 [6]. Guardacaso, contemporaneamente le foibe sparirono dal dibattito pubblico, almeno a livello istituzionale. Si ritornò a far cagnara solo dopo che gli insabbiamenti si erano ben stagionati, a 50 anni dagli eventi bellici.
Insomma prima non se ne parlò per evitare di esporre i propri scheletri ancora freschi nell’armadio, poi se ne parlò per evitare di farli riesumare.
È nell’interesse di noi eredi degli esuli far luce finalmente su quei crimini, poiché una volta svelati anche la nostra storia potrebbe essere narrata liberamente, nella sua interezza, senza dover stare sotto il tallone nazionale delle foibe. L’orrore di Rab, Gonars, Lipa riguarda anche noi poiché colpì i nostri cugini, quelli che parlavano un po’ più stretto.

31 luglio 1942. Esecuzione sommaria di civili del villaggio sloveno di Dane. Quelli che stanno per sparare sono soldati italiani. Eppure, ogni 10 febbraio qualcuno la ripropone straparlando di «plotone d'esecuzione titino» e «vittime italiane». È successo anche in una puntata di «Porta a porta». Di questa crassa manipolazione si è occupato anche il giornalista Michele Smargiassi sul suo blog Fotocrazia, clicca per leggere il suo articolo.

31 luglio 1942, esecuzione sommaria di civili sloveni nei pressi di Dane. Quelli che stanno per sparare sono soldati italiani. Eppure, ogni 10 febbraio qualcuno ripropone questa foto parlando di «plotone d’esecuzione titino» e «vittime italiane». È successo pure in una puntata di – dài che avete già indovinato… – «Porta a porta», il 13 febbraio 2012. Di questa crassa manipolazione si è occupato anche il giornalista Michele Smargiassi sul suo blog Fotocrazia, clicca per leggere il suo articolo.

5. E allora le foibe???

Nel momento in cui si inizia a parlare di foibe si smette di parlare di esodo.
Le foibe vengono aumentate di proporzioni e di peso storico per essere presentate come causa del trasferimento di massa. Una prospettiva sfalsata che rimuove la scelta, poiché l’emigrazione in Italia fu un’opzione, per alcuni più obbligata, per altri automatica e per altri ancora una scelta sofferta ma ponderata. Per questo motivo per anni le associazioni di esuli hanno disprezzato, boicottato e negato il loro riconoscimento ai cosiddetti “italiani rimasti” in Istria: la loro stessa esistenza inceppava la narrazione deterministica foibe-esodo, dimostrando che si poteva rimanere e, nonostante le difficoltà dell’essere una minoranza legata ad un paese politicamente ostile, persino preservare la propria identità linguistica e nazionale.
Per molti esuli rimuovere la propria scelta significò liberarsi dal peso della responsabilità, un sollievo immediato che comportò però la perdita della potestà sul proprio passato di cui divennero prigionieri, siglando un’ipoteca sulla propria storia familiare, sottratta anche ai propri eredi, per essere affidata alle associazioni, ai partiti e al nazionalismo. Io ora, come erede, impugno quell’ipoteca: voglio riappropriarmi della storia della mia famiglia.

6. Ma… l’esodo non fu una fuga dalle foibe?

No.
L’esodo fu un fenomeno che si produsse principalmente in Istria nel dopoguerra, uno stillicidio durato per oltre un decennio, di sicuro non una fuga disordinata. Gli unici a fuggire dall’Istria in tempo di guerra temendo realmente di finire infoibati furono fascisti, militari e persone compromesse con l’apparato statale fascista, la cosiddetta “ondata nera” esauritasi prima del ‘45. Mi rifiuto di includere questa ondata nella stessa categoria dell’esodo del dopoguerra che con il fascismo non ci ebbe niente a che fare. L’altro spostamento di popolazione notevole nel periodo bellico fu quello degli zaratini che però consistette in uno sfollamento oltre l’Adriatico a causa dei bombardamenti aerei angloamericani, ragione per cui la loro inclusione nella categoria dell’esilio è sempre risultato molto dubbia per gli addetti ai lavori [7].
Epurazioni ed emigrazioni furono fenomeni ben distinti cronologicamente. Le “foibe istriane” datano settembre 1943. Nel ‘45 ci furono altre epurazioni diverse nel Carso goriziano, triestino e sloveno ma che non riguardarono l’Istria. La stessa generalizzazione dei due fenomeni in un unico contenitore è tendenziosa.

esodi

Sviluppo degli esodi secondo le rivelazioni statistiche dell’Opera Assistenza Profughi Giuliano-Dalmati. Grafico del 1958 tratto da: AA. VV., Storia di un esodo, IRSML, Trieste 1980, p. 572.


7. Cosa cambia tra “foibe istriane” e “foibe giuliane”?

Sono due momenti ben distinti, cambiano anche le dinamiche e le pertinenze militari, gli obiettivi e gli attori. Soprattutto, sono diversi i contesti: nel ‘45, a guerra finita, le epurazioni – con gli annessi eccessi – furono in linea con fenomeni del tutto analoghi che bene o male si verificarono negli altri paesi liberati in Europa. Le foibe del ’43 furono invece un caso inseribile nella straordinaria situazione storica generata dall’Armistizio di Cassibile e dall’improvviso vuoto di potere che esso generò nel bel mezzo della guerra, causa di eccidi anche molto gravi come quello di Cefalonia. In Istria questa situazione particolare si concretizzò nell’immediata presa di potere del movimento partigiano croato, l’unico assieme a quello sloveno ad essere attivo all’epoca sul territorio amministrato dall’Italia. Il potere popolare instauratosi sfuggì allo stesso controllo partigiano il quale a stento riuscì a imporre parvenze di processi e disciplina a quella che fu più che altro l’esplosione della rabbia popolare covata in un ventennio di violenze, portate poi al parossismo con l’invasione della Jugoslavia. Questa situazione si tradusse in veri e propri linciaggi, condotti in taluni casi da criminali comuni infiltrati, alcuni dei quali furono poi identificati e condannati a morte dalla stessa giustizia partigiana [8]. Oltre a ciò, molti prigionieri militari furono liquidati di fronte all’impossibilità di mantenerne la custodia all’approssimarsi della Wehrmacht [9].
Questa esplosione di violenza, che indubbiamente in alcuni casi assunse i connotati di una vendetta anche su base nazionale, pur essendo piuttosto contenuta nei numeri e nella durata (200-500 vittime in 20 giorni), ebbe un forte impatto sugli istriani. Per la parte “italofona” della popolazione rappresentò l’inizio di quella guerra che invece per la parte “slavofona” era già iniziata da ben due anni, mostrandosi con il volto della pulizia etnica portata avanti dall’esercito italiano mediante massacri indiscriminati e deportazioni in campi di concentramento di interi villaggi, comprese donne, vecchi e bambini.
Lo shock prodotto dalle foibe istriane fu amplificato e sfruttato dai nazifascisti non appena ripresero il controllo della zona. Essi diedero ampio risalto al fenomeno attraverso stampa ed esposizioni pubbliche corredate di immagini truculente dei cadaveri semi-decomposti [10]. Lo scopo principale era chiaramente togliere il supporto popolare ai partigiani jugoslavi, ma un altro scopo non meno importante fu quello di distrarre la popolazione dalle rappresaglie che la Wehrmacht scatenò non appena riprese il controllo dell’Istria nell’ottobre 1943, provocando circa 5.000 morti in una settimana [11].

8. Ma… non furono infoibati decine di migliaia di italiani?

In Istria furono recuperati poco più di 200 corpi. Tale numero può essere ragionevolmente esteso fino a una cifra di 500-700 persone. Un numero di corpi di poco superiore fu estratto da cavità e fosse del Carso goriziano, triestino e sloveno nel ’45. [12]

9. Il numero è così importante?

Stimare le vittime in decine di migliaia serve a sostenere il falso storico della pulizia etnica [13], riportare le vittime di quella stagione all’ordine delle centinaia di unità riconduce il fenomeno alle epurazioni che si verificarono nel resto d’Europa (laddove il revanscismo ne vorrebbe fare un unicum storico). Per esempio in Francia nella cosiddetta Épuration légale furono eseguite quasi 800 condanne a morte, ma ne furono comminate più di 6.700 [14], dopodiché alcuni autori parlano di 9.000 esecuzioni sommarie [15]. Nella sola Emilia Romagna si ebbero 2.000 epurazioni, a Torino più di 1.000 [16].

10. Ma, aldilà del numero, in Istria non furono infoibati «solo perché italiani»?

Se si guarda il quadro dell’intera Jugoslavia le vittime di nazionalità italiana furono una minima parte rispetto a quelle collaborazioniste jugoslave [17]. In secondo luogo come già detto la definizione etnica nell’Istria “bonificata” era alquanto problematica. Per fare alcuni esempi: l’eroe della resistenza croata Joakim Rakovac, ucciso dai nazisti nel ‘45 e considerato infoibatore dalla vulgata neoirredentista, all’anagrafe italiana era registrato come Gioacchino Racozzi [18)]. Alcuni autori attribuirono la responsabilità delle foibe, tra gli altri, a Giusto Massarotto e Benito Turcinovich, chiaramente italiani [19]. Per contro il “Padre” degli esuli, Flaminio Rocchi, nasce come Anton Sokolic. Ciò fa capire come la nazionalità in quei luoghi fosse spesso subordinata ad una precisa scelta, in molti casi politica.

11. Gli istriani italofoni erano dunque tutti fascisti?

Certo che no, anzi, molti italofoni di Rovigno o della val d’Arsa – zone operaie – erano persino inossidabili comunisti e più in generale l’Istria vantava una radicata tradizione socialista. Altrettanto certo è che il fascismo ebbe una certa predilezione per questa regione e vi pestò più forte che altrove, prima coi manganelli e le taniche di benzina, scatenando in prossimità del confine orientale una violentissima ondata di squadrismo che precedette quella nazionale di qualche anno [20], e poi anche con le scuole e i registri anagrafici, attuando una bonifica integrale di ogni elemento slavo dal territorio, passando per cognomi, toponomastica, iscrizioni tombali oltre che con uno squadrismo permanente atto a dissuadere l’uso delle lingue “allogene”. Contemporaneamente il regime fabbricò il mito dell’atavica italianità di Istria e Dalmazia, mutuata dalla vecchia propaganda irredentista/imperialista dell’Italia liberale combinata all’epopea mussoliniana della romanità imperiale. Soprattutto a Zara il regime martellò molto sui cittadini rappresentandoli come sentinelle della patria nel barbaro mare slavo. Le motivazioni di questo battage sono spiegate qui: la Venezia Giulia (regione in cui all’epoca si faceva rientrare l’Istria) e l’enclave zaratina costituivano la porta di accesso al sogno imperialista italiano sul Mediterraneo orientale, i suoi abitanti nei programmi del duce ne sarebbero dovuti diventare i giannizzeri più fidati.
Si è dibattuto anche troppo sul legame tra bonifica etnica e rivalse nazionali slovene e croate contro gli italiani, ma non si è invece riflettuto abbastanza sugli effetti devastanti che questa bonifica, senza pari nel resto d’Italia (eccetto forse nell’Alto Adige/Südtirol), operò nel lungo termine su quella generazione di istriani, fiumani e zaratini che la assorbirono attraverso le scuole del ventennio, guardacaso proprio a quella generazione appartennero coloro che poi a guerra finita si rifiutarono di vivere sotto un’amministrazione slava, scegliendo l’esodo come «plebiscito d’italianità». Quando oggi chiedi ad alcuni dei pochi superstiti di quella generazione di raccontarti la loro storia familiare, per prima cosa attaccano con la favola della romanità dell’Istria, della sua millenaria purezza italiana, in altre parole espongono «un passato ricreato attraverso l’espulsione della differenza», come l’ha felicemente definito l’antropologo Stefano Pontiggia [21]. Ovviamente non è la vera storia dell’Istria quella che ti stanno raccontando, spesso smentita dal loro stesso cognome, ma piuttosto il panorama culturale della loro infanzia, quello della bonifica nazionale, dove le lingue “allogene” erano state messe a tacere con la forza mentre si inculcava nei bambini l’ideologia della romanità littoria, laddove la storia dell’Istria ci restituisce invece il volto di una terra che nei millenni fu soggetta a continue migrazioni in entrata e in uscita. Purtroppo i precetti inculcati nell’infanzia sono i più duri da estirpare ed i loro retaggi si manifestano anche in coloro che da adulti non aderiscono all’ideologia che li ha prodotti.

12. E’ vero che furono epurati anche antifascisti italiani?

Sì, in parte. Ma non si può tacere il fatto che molti presunti antifascisti locali furono piuttosto ambigui. I CLN della zona insorsero all’ultimo minuto all’avvicinarsi delle truppe angloamericane, quasi ad opporsi alla presa di potere da parte dei partigiani jugoslavi più che a neutralizzare i nazifascisti [22]. Almeno il CLN di Trieste ebbe il merito di preservare le strutture portuali e industriali della sua città. Nel caso di Fiume invece il CLN locale non fu nemmeno in grado di organizzare una resistenza simbolica contro i tedeschi che distrussero il porto in tutta tranquillità prima di ritirarsi. Il Comitato divenne realmente attivo solo dopo l’entrata dei primi partigiani jugoslavi in città, in pratica fu un CLN antislavo più che antifascista [23]. Per contro la repressione fu senza dubbio dura, condotta con metodi polizieschi e anche secondo una logica di repressione preventiva verso i potenziali oppositori alla presa di potere jugoslava, chiunque si opponeva ai poteri popolari diventava automaticamente un fascista agli occhi dei partigiani [24]. Ma per contestualizzare adeguatamente il momento storico bisogna sottolineare come molti antifascisti dell’epoca fossero spuntati ex-post e magari con trascorsi non del tutto specchiati. Oltre a ciò vi furono contatti su tutto il Confine Orientale tra fascisti e comitati di liberazione italiani (dai quali erano fuoriusciti i comunisti), al fine di creare un comune fronte antislavo, fatto unico in Europa [25]. Tali accordi non ebbero seguito ma c’è anche da rilevare il fatto che gran parte degli esponenti di questi CLN nel dopoguerra andarono ad ingrossare le fila dell’organizzazione stay behind Gladio [26], di fatto coordinandosi con elementi neofascisti in funzione antislava. In ultimo c’è anche da dire che sebbene non siano mancate esecuzioni molto sbrigative e omicidi sospetti, gran parte dei dissidenti fiumani “spariti” in quel periodo perirono in prigionia a causa di malattie e fame.

13.  Che senso ha distinguere gli infoibati dai morti nei campi di prigionia jugoslavi?

L’uso disinvolto del concetto di “foiba” per qualsiasi vittima riconducibile al movimento di liberazione jugoslavo ha una finalità psicologica, serve a produrre l’idea di un’eccezionale barbarie. Quelli che vengono definiti come gli infoibati del dopoguerra, con i quali si fa lievitare il conto fino a 4.000-5.000 vittime [27], in verità morirono in gran parte in prigionia, di stenti e di malattie. Oltretutto si trattò soprattutto di militari e quindi “POW – Prigionieri di guerra” i quali, purtroppo, non se la passarono bene in nessun paese coinvolto nella seconda guerra mondiale (nei campi americani morirono 56.000 POW tedeschi).
Questa realtà, soprattutto la sua triste ordinarietà in quel momento storico, non era tuttavia spendibile in senso politico. Molto più efficace l’immagine di grappoli di centinaia di persone al colpo scaraventate vive negli abissi carsici, per tratteggiare uno scenario mostruoso di decine di migliaia di cadaveri sepolti più o meno in ogni cavità della zona [28] e riconfermare nell’immaginario collettivo lo stereotipo etnico dell’eccezionale sanguinarietà balcanica. Molti storici si sono “arresi” a questa semplificazione accettando di usare il termine “foibe” in senso simbolico ma si deve essere ben consci che questo “trucchetto” stereotipizzante è un derivato della propaganda nazifascista del ‘44 che puntava sulla truculenza e sul conflitto etnico per spezzare la resistenza e convincere le popolazioni a collaborare. A riguardo dell’uso degli stereotipi etnici come arma terroristica di persuasione di massa giova ricordare la “leggenda del cane nero”, fabbricata da un cronista di un giornale collaborazionista di Trieste, Manlio Granbassi [29], il quale riferì di una presunta usanza slava (priva di alcun riscontro etno-antropologico) di gettare la carcassa di un cane nero nella foiba per impedire all’anima dell’infoibato di trovare pace (con molte variazioni sul tema).
Spingere le popolazioni a temersi, odiarsi e darsi alla faida etnica corrispondeva alla più pura ideologia nazionalsocialista, che in questo modo cercava di imporre al mondo il proprio principio di blut und boden [30] – suo obiettivo ultimo “spirituale”. Questo meccanismo purtroppo sopravvisse al nazismo morente e oggi si perpetua, ad esempio nella pubblicistica di stampo nazionalista attraverso la rappresentazione della lotta di liberazione jugoslava cui pure contribuirono diverse brigate garibaldine italiane, come puro “espansionismo slavo”, confondendolo deliberatamente con il nazionalismo grande-serbo dei cetnici o grande-croato degli ustascia che di fatto i partigiani combatterono, sempre allo scopo di infilare di contrabbando il falso storico della pulizia etnica.

stereoetnic

Esempio iconografico di deliberata confusione nel segno dello stereotipo etnico: a sinistra la foto di tre cetnici (facilmente riconoscibili dal caratteristico copricapo) mentre sgozzano un prigioniero. A destra, nella copertina dell’ennesimo libro sulle foibe, diventano tre perfidi slavocomunisti (o addirittura slavocomuniste?) Il falso è stato scoperto da Tuco, clicca per leggere il suo commento.

14. Non fu espansionismo slavo? E l’annessione dell’Istria e la «corsa per Trieste» come si spiegano?

Considerare una lotta di liberazione di un fronte antifascista perdipiù multietnico come una mera forma di espansionismo non solo è disonesto ma anche sinistro: significa tifare più o meno inconsciamente per l’Asse. Di questa grave implicazione non si accorsero molti esponenti dei CLN locali, si può concedere loro anche il beneficio della buona fede (e qui mi riallaccio ai precetti inculcati nell’infanzia che operano anche contro il proprio credo adulto). Detto questo non si può negare una indubbia ambizione territoriale ai partigiani jugoslavi ma c’è una differenza sostanziale tra l’incorporare obiettivi nazionali al fine di guadagnare il consenso popolare locale ed il perseguire obiettivi imperialistici. Bisogna anche ricordare che l’AVNOJ annoverava anche partigiani di ispirazione non comunista, come tutti i fronti popolari. Per tale ragione esso all’inizio si prefisse come principî da perseguire anche l’inviolabilità della proprietà privata e la difesa della libera iniziativa privata, obiettivi ben poco comunisti.
Diversamente, le truppe collaborazioniste ustascia e cetniche si prefissero obiettivi imperialistici che comportavano la sparizione delle altre etnie all’interno delle aree cui anelavano. Ciò si concretizzò in massacri, stupri etnici, deportazioni e orrori come il lager di Jasenovac [31]. E ad istruire e foraggiare questa gente furono i fascisti italiani prima e i nazisti tedeschi dopo, non bisogna dimenticarlo. I partigiani jugoslavi, se proprio ne avessero condiviso gli stessi principî espansionistici si sarebbero alleati a loro, non li avrebbero combattuti senza quartiere come fecero e c’è anche da dire che cetnici e ustascia non è che deposero le armi nel ’45, ma continuarono una ben poco nota guerra civile in Jugoslavia, armi in pugno, fino al ’47. Dopo di che sparirono per riemergere nel ’91. I massacri in Bosnia, in Slavonia e in Kraijna furono compiuti inneggiando a Draža Mihailović e Ante Pavelić, non di sicuro a Tito o alla Jugoslavia.

15. Ma il regime Jugoslavo non voleva «sbarazzarsi degli italiani»? L’ha ammesso anche Gilas!

Quella di Gilas è una bufala. Il meccanismo attraverso il quale essa si è prodotta e amplificata è spiegato qui. Aldilà del fatto che è stato dimostrato che Gilas non era presente in Istria in quel momento, Kardelj effettivamente fu inviato in loco ma per motivi diametralmente opposti: convincere gli italiani a rimanere.

16. Per quale ragione il regime jugoslavo avrebbe voluto trattenere gli italiani?

l'arena di polaPerché l’esodo di massa da Pola e Fiume fu un disastro per la Jugoslavia, sia sul piano economico che politico. Per contro i famigerati CLN “antislavi” d’Istria e Fiume spinsero gli italiani ad andarsene in massa (tramite stampa e propaganda di strada), da un lato con lo specifico scopo di sabotare la Jugoslavia – una specie di sciopero di cittadinanza (un porto vuoto è un porto morto), dall’altro fu una tattica suicida per convincere la commissione alleata a riassegnare quelle terre all’Italia mostrando ad essi una sorta di “plebiscito di fatto” a mezzo emigrazione di massa.

17. Ma l’Italia non aveva interesse a mantenere gli italiani nella Zona B?

Le posizioni iniziali di Italia e Jugoslavia mutarono molto nel tempo.
L’aria cambiò bruscamente nel ‘48. Con la rottura Tito-Stalin la Jugoslavia fu isolata a livello internazionale, la difficile ripresa economica fu bloccata dagli embarghi non dichiarati che Mosca ordinò agli altri paesi cominformisti che circondavano la Jugoslavia. Nel paese si diffuse l’instabilità politica che comportò l’instaurazione di uno stato di polizia paranoico. Tenca Montini citando Dubravka Ugresić l’ha efficacemente definito periodo del “maccartismo jugoslavo” [32], gli anni (1948-1954) furono più o meno gli stessi e le dinamiche pure. A farne le spese, tra i tanti, furono anche le minoranze nazionali che fino allora il regime si era premurato di difendere: gli ungheresi della Vojvodina, gli albanesi del Kosovo e gli italiani d’Istria, furono i più sospettati di cominformismo a causa delle posizioni antijugoslave prese dai rispettivi partiti comunisti nazionali. Oltre a ciò la comunità italiana pagò molto i contrasti internazionali con l’Italia. Ci furono intimidazioni, danneggiamenti e pestaggi in corrispondenza delle elezioni del 1950 e della nota angloamericana dell’8 ottobre 1953 [33]. Si trattò di atti teppistici ai quali le autorità non seppero reagire lasciando spesso agli italiani la sensazione di essere lasciati soli. C’è da dire che se i diritti civili in Jugoslavia soffrirono in questo frangente storico, quelli nazionali continuarono ad essere tutelati. Ciononostante molti istriani, anche di lingua slovena e croata, emigrarono in Italia per via del generale clima politico instabile e a causa dell’economia disastrata (specialmente il mondo agricolo che contraddistingueva la zona B dell’Istria ne fu travolto), sfruttando l’opportunità dell’opzione nazionale stabilita dai trattati. Questa ondata di opzioni non fu per niente gradita dall’Italia che ormai non riusciva più a gestire l’afflusso di profughi e soprattutto sperava di mantenere una presenza consistente di italiani nella Zona B al fine di riuscirla a reclamare. Oltretutto questi esuli erano i più “sospetti”, il governo italiano li percepiva come “i meno italiani” e soprattutto sospettava che fossero comunisti cominformisti in fuga. Questa fu una delle ondate più consistenti dell’esodo dopo quello di Pola e fu effettivamente la più sfigata: trattati come fascisti o stalinisti in Jugoslavia e come comunisti in Italia.

18. E quanti furono gli esuli?

Una stima complessiva definitiva è difficile da stabilire poichè furono molti gli esuli che non si registrarono come profughi all’arrivo in Italia e molti furono gli espatri illegali che continuarono fino agli anni ‘60 secondo una logica affine a quella che interessò altri paesi del blocco comunista e anche perché la Jugoslavia, dopo il disgelo con l’URSS, consentì ai propri cittadini di viaggiare liberamente (il passaporto jugoslavo era uno dei più ambiti all’epoca del muro di Berlino, consentendo di transitare sia nei paesi del blocco occidentale che in quelli orientali). La cifra dipende dai limiti cronologici che si vuole dare all’esodo: se si include l’esodo di guerra o gli espatri successivi al ’56 la cifra cambia sensibilmente. Oggi si è propensi a quantificare una quota fra i 200.000 e i 250.000 [34].

19. Perché si sente ripetere la cifra di 350.000?

L’OAPGD (Opera assistenza profughi Giuliani e Dalmati) dapprima rese pubblici i dati di rilascio di 150.000 certificati di profugo; questo numero, poi, tramite criteri statistici molto controversi, arrivò fino a quota 250.000. In maniera del tutto arbitraria Padre Flaminio Rocchi – nato Anton Sokulic – dell’ANVGD fece lievitare la cifra fino a 350.000. Tale cifra, mai giustificata da alcun dato o stima statistica [35], divenne quella di riferimento delle associazioni degli esuli.

20. Ma che siano stati 250.000 o 350.000 cosa cambia?

Non molto, apparentemente. L’ordine di grandezza è all’incirca lo stesso, eppure c’è un significato nascosto. Importante è notare che le associazioni parlano di 350.000 esuli italiani, mentre la somma complessiva degli abitanti dell’Istria ammontava grossomodo a 400.000 e anche gli studi statistici più benevoli stimano un massimo di 185.000 italiani in Istria nel 1941 [36] (abbiamo visto anche come la definizione etnica degli istriani fosse tutt’altro che lineare). Questa cifra non solo nega l’esistenza di una quota di istriani rimasti ma nega anche una presenza storica slava nella regione. In pratica attraverso questa cifra apparentemente tecnica si perpetua quell’ideologia di purezza millenaria di cui già abbiamo discusso.

21. Perché le associazioni degli esuli sarebbero così nazionaliste?

Le associazioni di esuli non sono monolitiche, c’è tutto un arcipelago molto “balcanico”, a proposito di stereotipi: tanti potentati in lotta fra loro, ma tutte le associazioni sono contraddistinte da un loro peculiare modo di intendere il nazionalismo. C’è una lontana e nascosta origine: come già si è detto tra ‘43 e ’45, vi fu una cosiddetta “ondata nera” verso la RSI di elementi compromessi con il regime fascista. Furono costoro i veri e propri esuli a fuggire dall’Istria a causa delle foibe. Si è anche già detto che questi elementi neri fondarono i primi comitati di esuli, finanziati dalla stessa RSI [37]. Molti quadri di detti comitati si riciclarono poi nelle associazioni degli esuli nel dopoguerra (si veda il caso di Oddone Talpo), ne è testimonianza la continuità di contenuti propagandistici che poi tennero in ostaggio la narrazione dell’esodo negli anni a seguire. Da allora “foibe ed esodo” divenne un’endiadi obbligatoria, chiunque non la replicava veniva ostracizzato. Ciò su cui non si è riflettuto molto è che questa endiadi era la precisa impronta di quei primi “esuli” compromessi con il fascismo, mescolatisi poi nel dopoguerra agli esuli veri e propri, imponendo ad essi le loro parole d’ordine e di fatto usandone il dramma per riciclarsi come vittime e fare proselitismo. Sarebbe a dire che l’identificazione tra esuli e fascisti fu fomentata inizialmente proprio dai primi comitati esuli, salvo poi lamentarsene al cambio di stagione politica, imputandola interamente agli “slavo-comunisti”.

22. Quindi gli esuli furono obbligati ad essere nazionalisti?

In molti casi fu un’adesione spontanea e la stessa opzione fu una scelta nazionale, ma a costoro si uniformarono anche coloro che emigrarono per ragioni differenti, ideologiche, economiche o di qualsiasi altro tipo. Furono persuasi con le buone, ma alla bisogna anche con le cattive. L’OAPGD concedeva lo status di profugo a propria discrezione, espungendo dalle proprie liste gli elementi politicamente inaffidabili. Lo status di profugo non era uno scherzo, comportava assistenza, sussidi economici, assegnazione di alloggi e poi precedenze nei concorsi, etc.
Questo meccanismo fu sfruttato anche dal CLN Istria che si sostituì come gruppo dirigente agli ex-repubblichini e voleva orientare politicamente la massa degli esodati verso la DC o altri partiti. Ciò comportò l’esclusione di tutte le altre storie di profuganza non allineate, la moltitudine di vicende familiari complesse fu così uniformata nella cornice nazionalista. Molto spesso però furono gli stessi esuli ad aderire spontaneamente a questa narrazione, primo, per il banale principio che non si sputa nel piatto dove si mangia, in secondo luogo, perché questo tipo di narrazione riempiva gli spazi aperti dal trauma dello sradicamento. Furono molti gli esuli a fuggire dall’Istria a causa di intimidazioni, portate avanti talvolta da teste calde spesso nell’imbarazzo dei locali dirigenti jugoslavi. Le “Foibe” furono un concetto che le associazioni politicizzate fornirono ai propri associati per spiegare queste intimidazioni, come anche le ondate di arresti del paranoico periodo post-‘48 (che abbiamo chiamato del “maccartismo jugoslavo”, noto anche come periodo “dell’Informbiro”).
Così nella memoria ex-post di molti esuli, ma soprattutto nei figli degli esuli, questi episodi drammatici – spiegabili solo attraverso una complicata disamina storica – si trasfigurarono in un racconto lineare dove magari i propri genitori erano riusciti miracolosamente a sfuggire a presunte “liste di infoibamento” (in un’epoca in cui questo genere di epurazioni erano ben che finite, come le ricerche storiche accurate hanno rilevato). “Il martirio delle foibe” rispondeva anche ad una comprensibile necessità di legittimazione che l’esule avvertiva di fronte all’ostilità della popolazione del luogo dove andava a trasferirsi, spesso risentita per i privilegi che egli otteneva, per esempio nelle graduatorie per l’assegnazione di case popolari e nelle liste di collocamento.

23. Ma gli esuli esistono ancora? Quali e quanti soci ormai contano le loro associazioni?

Gli esuli veri e propri stanno scomparendo e invecchiano anche i figli emigrati in tenera età al seguito dei propri genitori. Dopo aver “nazionalizzato” gli esuli e la loro prole, le associazioni si sono adoperate alla “nazionalizzazione” dei nipoti, ormai gli stessi presidenti delle associazioni sono di seconda generazione. Chiaramente “l’entusiasmo” si sta esaurendo e in un certo senso l’istituzione della giornata del Ricordo risponde alla necessità di continuare a perpetuare quell’ideologia nazionale specifica anche dopo la scomparsa dei diretti interessati.
Come si era preannunciato nella prima di queste FAQ, ci sono sviluppi in atto in alcune associazioni come ANVGD, che ha sostituito la clausola revanscista del suo statuto con nuove disposizioni miranti alla collaborazione con la comunità degli italiani rimasti in Istria. In linea di massima mi verrebbe da salutare positivamente questo cambiamento di rotta: dopo averli insultati e accusati di tradimento e “collaborazionismo” coi titini per anni, finalmente si ravvedono. Eppure qualcosa non quadra: i rapporti transfrontalieri, le celebrazioni congiunte e le collaborazioni fra esuli e rimasti si intensificano ma il frasario rimane lo stesso: foibe, 350.000 esuli e tutto l’armamentario neoirredentista. Non solo, queste parole d’ordine le stanno incominciando a ripetere anche i rimasti, pur essendo concetti che negano la loro stessa storia! Come se le associazioni degli esuli spingessero i rimasti a rinnegare le scelte dei propri padri. Un meccanismo terribilmente simile alla spoliazione e all’uniformizzazione cui furono sottoposte più o meno volontariamente le storie degli esuli. A inquietare inoltre è il recente interesse per i rimasti di soggetti non prettamente progressisti come Lega Nazionale e come… Roberto Menia, sì, lui, il braccio destro di Fini – il cerchio di queste FAQ si chiude. Un mese fa ha lanciato una propria formazione politica parlando proprio di rimasti e della necessità di ritornare «a seminare italianità nell’Europa adriatica». Se si tratta di riscoperta delle radici, di tutte le radici ovviamente, non posso che compiacermene, ma «seminare italianità nell’Adriatico», detto da Menia a me fa paura. Il 1991 non è poi così lontano.

24. Cosa leggere per capire l’esodo?

Individuare pubblicazioni adatte è molto arduo, perché la quantità di ciarpame nazionalista, etnicista, culturalista e subdolamente revanscista o irredentista è spropositato rispetto agli studi storici seri e indipendenti, ma per fortuna questi ultimi si stanno moltiplicando. Per iniziare, personalmente consiglio tre testi molto diversi:

Storia di un Esodo - la copertina

Aa.Vv. Storia di un esodo
Il libro “maledetto” dell’IRSML (Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione) è molto invecchiato. Giovanni Miccoli nella prefazione del 1980 esprimeva l’augurio che tale testo potesse essere un’introduzione all’argomento, da sviluppare negli anni a venire. Ma così non fu: il testo non incontrò il favore delle associazioni degli esuli e finì in disgrazia, mai più ristampato. Da allora non è stato scritto niente di altrettanto esaustivo in merito, perché ogni altra pubblicazione si è dovuta confrontare con questa lobby, presentando verità patteggiate con il frame nazionalista.

Metamorfosi etniche

Piero Purini, Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria
Trent’anni dopo Storia di un esodo, Piero Purini raccoglie il testimone allargando la visuale, l’iniziale periodo 1945-1956 viene ampliato al 1914-1975. Un ingrandimento del diaframma necessario per capire tutti i mutamenti di popolazione della zona e inquadrarvi adeguatamente l’esodo del secondo dopoguerra. Era la tesi di dottorato dell’autore e a tutt’oggi è uno dei testi di riferimento per analizzare i mutamenti demografici sul confine orientale.

Materada di Fulvio Tomizza

Fulvio Tomizza, Materada
Infine un romanzo, un’opera di finzione che vale come un trattato di storia e di antropologia insieme. È anche un libro scritto divinamente, si sente che l’autore era uomo di teatro: c’è un’attenzione particolare per il significato della concatenazione delle scene e dei dialoghi. Narra la scelta dell’esilio di Francesco Coslovich, o Franc Koslovic a seconda dei punti di vista, contadino “colono” di Materada, paesino vicino a Buie in piena zona B. Non fa sconti a nessuno, né alla sbirraglia del regime jugoslavo né alla stessa società contadina istriana, gretta, avida, patriarcale e ossessionata dalla terra.

NOTE

1. «Il Piccolo», 30 agosto 2003
2. Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991-1999, Torino, Einaudi, 2001, pp. 321-322
3. Miccoli G., «Risiera e foibe: un accostamento aberrante» in Bollettino dell’Istituto Regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, IV, n. 1, Trieste, 1976
4. Tenca Montini F., Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi, Udine, Kappa Vu, 2014, p. 11
5. Del Boca A., Italiani, brava gente, Vicenza, Neri Pozza, 2005 pp. 245-246
6. Giustolisi F., L’armadio della vergogna, Roma, Nutrimenti, 2004
7. Colummi C., Guerra, occupazione nazista e resistenza nella Venezia Giulia: un preambolo necessario in: Storia di un esodo, Trieste, Istituto Regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 1980 pp. 43-47
8. Scotti G., Dossier Foibe, Lecce, Manni,  2005 p. 115
9. Ivi, p. 77
10. Ferrari P., «”Bolscevismo senza maschera”. Una mostra nazista del 1944» in: Italia contemporanea n. 268-9, 2012
11. Verginella M., Tra storia e memoria. Le foibe nella pratica di negoziazione del confine tra l’Italia e la Slovenia in: Il perturbante nella storia. Le foibe : uno studio di psicopatologia della ricezione storica, Verona, QuiEdit, 2010, p. 82
12. Pupo R., Spazzali R., Foibe, Milano, Mondadori, 2003, pp. 26-29
13. Ivi, p. 112
14. Judt T., Postwar: A History of Europe Since 1945, London, Pimlico, 2007, p. 46.
15. Amouroux H., La grande histoire des Français après l’occupation, tome 9 : Les règlements de comptes (septembre 1944 – janvier 1945), Paris, Robert Laffont, 1991, pp. 83-89
16. Dondi M., La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 2000 p. 97 e pp. 224-225
17. Pirjevec J., Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918 – 1992, storia di una tragedia, Torino, Nuova Eri, p. 205
18. Scotti G., Dossier Foibe, cit., p. 115
19. La Perna G., Pola Istria Fiume 1943-1945, Milano, Mursia, 1993 p. 179n
20. Piemontese G. Il fascismo a Trieste negli anni 1919-1923, Udine, Del Bianco, 1956
21. Pontiggia S., Storie nascoste. Antropologia e memoria dell’esodo istriano a Trieste, Roma, Aracne, 2013
22. Colummi C., Guerra, occupazione nazista e resistenza nella Venezia Giulia, cit. pp. 29-30
23. Ferrari L., Fiume 1945-47 in Storia di un esodo, cit., pp. 56-58
24. Troha N.,  Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia in Foibe. Il peso del passato, Venezia Giulia 1943-45, Venezia, Marsilio, 1997 pp. 59.95
25. Purini P., Metamorfosi etniche, Udine, Kappa Vu 2010, pp. 215 – 216
26. Tenca Montini F., Fenomenologia di un martirologio mediatico. cit., p. 79
27. Pupo R., Spazzali R., Foibe, cit., pp. 26-29
28. Rocchi, F., L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, Roma, Difesa adriatica, 1998
29. Pirjevec J., Foibe. Una storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009
30. Schneider-Bosgard H., Bandenkampf : resistenza e controguerriglia al confine orientale; a cura di Antonio Sema, Gorizia, LEG, 2003
31. Cadik I. D,, The smell of human flesh : a witness of the holocaust: memories of Jasenovac, Belgrade, Dosije, 2006
32. Tenca Montini F., Fenomenologia di un martirologio mediatico. cit., p. 77
33. Colummi C., Dalle elezioni del 1950 alla nota angloamericana dell’8 ottobre 1953: le premesse del grande esodo in Storia di un esodo, cit., pp. 381-417
34. Trani G., I problemi di quantificazione del fenomeno dell’esodo in Storia di un esodo, cit. pp.  566-578
35. Purini P., Metamorfosi etniche, Udine, Kappa Vu, p. 327
36. Mileta Mattiuz O., Popolazioni dell’Istria, Fiume, Zara e Dalmazia, ADES, Trieste, 2005
37. Colummi C., Le organizzazioni dei profughi in Storia di un esodo, cit., pp. 275-277

N.d.R. I commenti a questo post saranno attivati dopo il 13 febbraio 2015, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).

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126 commenti su “#Foibe o #Esodo? «Frequently Asked Questions» per il #GiornodelRicordo

  1. […] 10 febbraio 2015 / nicolazuin Oggi pubblichiamo un importante testo di Lorenzo Filipaz. L’originale lo trovi qui: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=20327 […]

  2. […] del mondo degli esuli che prende una posizione così forte su alcune questioni calde, dal titolo #Foibe o #Esodo? «Frequently Asked Questions» per il #GiornodelRicordo pubblicato sull’importante sito GIAP a cura di WU MingMarcoBarone […]

  3. […] è solo un piccolo addendo al bellissimo post di Lorenzo Filipaz «Foibe o esodo? Frequently Asked Questions sul Giorno del Ricordo», che negli ultimi due giorni ha avuto un vero boom di […]

  4. […] O ESODO? 24 FAQ SUL GIORNO DEL RICORDO di Wu Ming Fundation: clicca qui per leggere […]

  5. […] è solo un piccolo addendo al bellissimo post di Lorenzo Filipaz «Foibe o esodo? Frequently Asked Questions sul Giorno del Ricordo», che negli ultimi due giorni ha avuto un vero boom di […]

  6. […] Qui invece dati e fatti inerenti Foibe ed esodo in 25 punti in un esaustivo post di Lorenzo Filipaz su «Giap» http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=20327 […]

  7. In apertura di questo ottimo post l’autore si chiedeva quali sarebbero state le panzane incredibili, l’impostura massima in occasione dell’imminente 10 febbraio 2015. Quale numero di vittime sarebbe stato annunciato, moltiplicato e poi ancora amplificato da stampa e politici.
    Ebbene, anche quest’anno, chiunque ha potuto imbattersi in molteplici dichiarazioni e nei soliti “approfondimenti” che sono risultati fuori misura, talmente sproporzionati da travolgere in un vortice di mistificazioni i veri termini della questione.
    Questi sono alcuni rapidi esempi di come i media nazionali hanno dato copertura al Giorno del Ricordo.

    La sera del 9 febbraio RaiNews anticipa il Giorno del Ricordo con un ampio servizio: fino a 5 mila morti.

    La mattina successiva sul Corriere online c’è uno speciale su foibe ed esodo organizzato in dodici schede. L’intento pare essere quello di chiarire i fatti, dare contezza degli eventi storici. Bisogna ricredersi in fretta, la prima scheda titola “La pulizia etnica”: oltre 10 mila morti.

    Alla radio, poi, si esorbita.
    A Radio3 interviene una figlia di esule che riferisce di un numero di morti italiani superiore a quello della Shoah: siamo a milioni di vittime.

    Ma non basta. Su Radio1 viene intervistato intervistato il generale Colussi, figlio del podestà fascista di Fiume nel periodo dal 1934 al 1938, che tentando di far passare il padre come una vittima innocente di quel periodo osa l’inaudito: “Purtroppo, i tedeschi se ne sono andati da Fiume”.

    Anche stavolta in troppi hanno approfittato del 10 febbraio per diffondere tossine pericolose.

  8. Dopo la pubblicazione del post, la collaborazione tra diverse persone informate e competenti ha permesso di scovare un bel po’ di altre foto utilizzate in modo truffaldino.

    Cominciamo con questa: si tratta di una foto conservata al Museo della Guerra di Belgrado, e si riferisce a una rappresaglia su civili compiuta dall’ esercito italiano nella Slovenia centrale.

    La foto è comparsa in numerosissimi siti italiani come documento sulle foibe, ad esempio qui:

    http://web.archive.org/web/20150213155847/http://www.veronaeconomia.it/2014/02/04/leggi-notizia/argomenti/annunci-e-varie/articolo/giorno-del-ricordo-programma-iniziative-2014.html

    o qui

    http://web.archive.org/web/20150213163255/http://www.altritaliani.net/spip.php?page=article&id_article=978

    Questa foto invece documenta una fucilazione di massa compiuta sempre dall’esercito italiano in Montenegro.

    e anche in questo caso è stata utlizzata come documento sulle foibe.

    Quest’altra foto documenta la riesumazione di sloveni uccisi dai nazifascisti ad Ajdovščina

    ma la Presidenza della Camera l’ha spacciata per documento sulle foibe

    http://web.archive.org/web/20150213160312/https://twitter.com/Montecitorio/status/565087135834079232/photo/1

    Dopo la segnalazione

    il team comunicazione della Camera ha ammesso l’errore, chiesto scusa su Twitter e rimosso l’immagine dal sito.

    http://web.archive.org/web/20150213160447/https://twitter.com/Montecitorio/status/566235244962275328

    Questa foto ritrae soldati italiani che malmenano degli ostaggi in Montenegro mentre li conducono alla fucilazione.

    mentre qui

    http://web.archive.org/web/20150213164805/http://www.piazzanews.it/puglia/altre-dalla-puglia/item/12777-giorno-del-ricordo-domani-il-consiglio-regionale-ricorder%C3%A0-vittime-e-profughi

    e qui

    http://web.archive.org/web/20150213161418/http://www.lavocedelsavuto.it/portal/index.php?option=com_content&task=view&id=56&Itemid=53

    compare come ducumento sulle foibe.

    Eppure una documentazione fotografica autentica sulle riesumazioni dalle foibe esiste, in particolare per quanto riguarda la foiba di Vines. Perché quindi ricorrere a manipolazioni?

    Cialtroneria? Anche.

    Ma c’è qualcosa di più sottile. La prima cosa che salta agli occhi è che in tutte queste foto le parti sono invertite rispetto ai fatti che si pretende di documentare: in queste foto sono italiani quelli che fucilano in massa civili e partigiani jugoslavi. Chi ha manipolato, non è andato a pescare foto scattate in Francia, o da qualunque altra parte. Ha pescato proprio nella documentazione sui crimini di guerra italiani in Jugoslavia. Al netto della viralizzazione delle immagini nei social, chi ha messo in circolo quelle foto l’ha fatto quindi per negare in modo radicale tali crimini, appropriandosi dei morti causati dalle nostre truppe di occupazione e travestendoli da italiani. Da un lato quindi c’è l’autoassoluzione per gli italiani, dall’altro la negazione della memoria e dei nomi di chi ha subito la violenza italiana.

    Diceva Benjamin: neppure i morti saranno al sicuro dal nemico.

    p.s. Quanto questo poi sia rispettoso degli stessi morti per mano partigiana e/o jugoslava, lascio che a dirlo sia chi si è intestato la loro memoria.

  9. Poco più di un’ora fa abbiamo subito un attacco informatico, un DDOS del meccanismo di iscrizione a Giap e autenticazione. Migliaia di tentativi di invio di email hanno buttato giù il server. Abbiamo fatto ripartire la macchina, studieremo i log e vi comunicheremo i dettagli.

  10. Rispetto senza dubbio il lungo percorso di autoanalisi di Lorenzo Filipaz – parziale come sono inevitabilmente e per antonomasia le autoanalisi – e concordo su svariate sue considerazioni dedicate al discorso pubblico del nostro nevrotico paese. Concordo in particolare sul fatto che le violenze politiche verificatesi dal 1918 al secondo dopoguerra nella Venezia Giulia, gli effetti del conflitto, l’urto dei contrapposti nazionalismi e le vicende connesse alle varie ondate di «esodo» siano state obliate a lungo e siano in seguito riemerse, cinicamente stravolte, ad uso e consumo del consenso, del basso calcolo politico e di una polemica di corto respiro, volta ad andare subito all’incasso e a nascondere le responsabilità storiche dell’«italiano brava gente».

    Il meccanismo è autoevidente: basti considerare la data indicata dal governo Berlusconi per celebrare il Giorno del ricordo. Scegliendo il 10 febbraio, la destra in doppiopetto riprendeva – direi piuttosto consapevolmente – le lunghe polemiche neoirredentiste del nazionalismo contro il trattato di pace, firmato appunto il 10 febbraio 1947 e presentato dallo stesso De Gasperi come un Diktat ingiusto ai danni della nuova Italia repubblicana e democratica. Il trattato inflisse una ferita profonda nell’identità dell’opinione pubblica nostrana, incapace di accettare il ridimensionamento delle ambizioni di potenza del paese, dopo vent’anni di martellante propaganda imperialista da parte del fascismo. Il governo ne era consapevole e anche per questo fu sempre fermo al tavolo della pace, nella rivendicazione dei più o meno presunti diritti italiani: svilire il già martoriato orgoglio patriottico non si poteva/voleva, a meno di non lasciare campo aperto alla propaganda nazionalista, revanscista e nostalgica che non mancava di riproporre la sua voce, nonostante la sconfitta militare e politica da cui si era appena usciti. Durante la Conferenza, De Gasperi scelse allora – schematizzo un po’ – di sminuire l’impatto del regime sugli equilibri etnici delle frontiere, per tentare di chiudere con meno danno possibile l’ultimo capitolo ereditato dalla dittatura.

    I problemi di memoria cominciarono lì, ma avevano inevitabilmente radici profonde. Non serve tirare in ballo il grande classico di Claudio Pavone, per dire che il trapasso dell’Italia al dopoguerra fu segnato da profonde continuità rispetto alle mentalità del passato. Può d’altronde una transizione compiersi secondo linee diverse? Nell’impossibilità della fatidica «ora zero», ecco allora prodursi un generalizzato fenomeno di rimozione delle responsabilità del regime e, per quanto qui più ci interessa, della sua strategia di snazionalizzazione e italianizzazione forzata nelle regioni di confine. Si trattò appunto di quella bonifica etnica – non pulizia, lo vedremo dopo – di cui correttamente parla Filipaz in un passaggio del suo articolo: una bonifica che, in anni di conquista (anche nazionale) del suolo, venne condotta con spietatezza in entrambe le aree di frontiera, annesse solo qualche anno prima. La rimozione passò per topos piuttosto noti: il fascismo come parentesi nella millenaria civiltà italiana, la guerra solo fascista e non voluta dal «popolo», i fascisti di confine assolti o condannati lievemente perché la loro azione – nella Venezia Giulia come nell’Alto Adige – sarebbe stata improntata a respingere lo straniero e servire l’italianità. Quell’italianità che, in ampia parte del discorso pubblico, avrebbe dovuto riprendere nel dopoguerra la sua presunta missione universalistica e che fu subito contrapposta alla «barbarie slava», mentre «balcanico» e «sanguinario» diventavano sinonimi.
    Si trattava di processi che non riguardarono soltanto le questioni inerenti le terre di frontiera: si pensi più in generale agli esiti tristemente noti della giustizia di transizione, dimostrazione di una volontà di pacificazione delle coscienze, che era obiettivo condiviso sia della Dc che del Pci (ma non del socialismo e dell’azionismo), come attesta la firma di Togliatti all’amnistia del 1946. Lo stesso Togliatti che, in quegli stessi mesi, difendeva il diritto alle colonie italiane e alla conservazione del Brennero, ma che definiva invece le deportazioni e gli infoibamenti messi in atto dai compagni jugoslavi come una bufala montata ad arte dall’anticomunismo internazionale, non riuscendo a prendere chiara posizione su Trieste, stretto com’era fra la sua partecipazione al governo e la solidarietà cui era tenuto nei confronti di Tito. Lo stesso Togliatti, ancora, che dopo la rottura fra quest’ultimo e Stalin sarebbe passato nel 1948 con una piroetta nell’uso politico della storia ad accusare il regime di Belgrado di ogni possibile nefandezza. Da quel momento, l’intero arco politico italiano si attestò su una posizione antijugoslava per almeno un decennio.
    Il dibattito sulle foibe non sparì comunque dopo il trattato di pace. Basta sfogliare i principali giornali generalisti per notare che il tema ricorse regolarmente in tutte le polemiche fra Italia e Jugoslavia fino al 1954, ad opera delle forze di governo e non solo della destra. Manipolazioni si sarebbero verificate dopo e sempre in senso omissivo. Dapprima, ancora una volta da parte del Pci, dopo il riavvicinamento fra Jugoslavia e Urss di metà anni Cinquanta, aspramente denunciato dal comunista triestino Vittorio Vidali ma coperto dalla propaganda togliattiana. Poi, negli anni della distensione, il nodo venne messo da parte pressoché definitivamente, perché agli occhi del centro-sinistra di Moro la normalizzazione adriatica era un tassello della Ostpolitik e andava percorsa per multilateralizzare (orrendo neologismo) la Guerra fredda. Sollevare il nodo delle violenze postbelliche non avrebbe ovviamente giovato ai numerosi accordi che Roma e Belgrado strinsero negli anni Sessanta, durante i quali Moro non esitò a definire Tito come uno statista illuminato. Gli unici a parlare ancora di certe cose finirono così per essere l’estrema destra, le associazioni dei profughi e le forze politiche locali, ma di fatto il tema si inabissò per decenni.

    Ma forse sto divagando e mi scuso perché so che sarò lungo. Autoanalisi, si diceva. In forme di domande che l’autoanalizzato si pone, ma a cui mi pare anche rispondere in fondo con granitiche certezze. Ma se il proposito è davvero l’apertura di un cantiere, come mi sembra si dica a un certo punto, ecco che mi piacerebbe inserire qualche modesta glossa qui e là, qualche precisazione, proprio perché sono un fermo sostenitore della necessità di superare le banalizzazioni del 10 febbraio. Banalizzazioni cui contribuiscono, da ben prima dell’istituzionalizzazione della data, non soltanto la tv e i giornali generalisti, ma anche una gran parte della militanza intellettualmente impegnata tanto a destra quanto a sinistra.

    La tesi di Filipaz è chiara, quando si domanda retoricamente se il Giorno del ricordo impedisca davvero di parlare delle vicende del confine orientale nella loro totalità, senza cioè tralasciare quanto avvenne prima dell’onda di violenze del 1943 e del 1945. Guardando il sito del Corriere della Sera, la lettera scritta dal ministro Giannini, il contributo di Micromega ospitato da Repubblica, le dichiarazioni superficiali di Renzi e Mattarella pare difficile dargli torto. Nelle intenzioni dei suoi artefici politici (la destra berlusconiana ed ex missina), la celebrazione è servita a coprire quegli eventi e le italiche responsabilità con una pirotecnica sequenza di sparate, polemiche e semplificazioni: l’operazione è riuscita ed è per di più sfociata in un delirio massmediatico che ha in effetti posto in ombra anche gesti di grande significato distensivo, come il Concerto dei tre presidenti, tenutosi a Trieste nel 2010. Le polemiche politiche, le fiction inguardabili, le trasmissioni di Vespa, la pigrizia di troppi giornalisti, i tweet e i laconici comunicati stampa dei politici di tutti i colori dimostrano quanto la questione sia ancora ampiamente avvolta da preconcetti ideologici, da ricostruzioni generiche e da una pressoché totale ignoranza dei fatti di cui stiamo discutendo. Ed ecco allora che ci si rifugia nella soluzione più facile di tutte: parteggiare come allo stadio per una squadra o per l’altra, sulla base delle propensioni politiche proprie o della linea editoriale cui ci si conforma. Da una parte si cancellano le colpe del fascismo, si trasformano gli esuli in martiri, si dipinge l’Italia vittima della barbarie «slavo-comunista» e si tratteggia la Jugoslavia come un girone infernale; dall’altra si dimenticano gli orrori del comunismo, si descrivono gli istriani come una collettività fascista, si identifica l’Italia (anche repubblicana) come un’estensione del regime e si rappresenta la Jugoslavia come una sorta di paradiso in terra. Da un lato e dall’altro si taglia con l’accetta e si cancellano le sfumature, come un tempo accadeva con le nozioni di «slavo-comunista» e di «italiano fascista», le quali coprivano come il cemento liquido chiunque nell’area di confine si fregiasse di appartenenze identitarie diverse o plurali.
    Sto banalizzando ed estremizzando a mia volta, ovviamente, ma non mi sembra che quegli anni drammatici siano raccontati poi molto diversamente dagli interventi che ho letto su buona parte della stampa e, soprattutto, sui social network da cui emergono la gigantesca ignoranza sulla snazionalizzazione fascista e sulle bieche caratteristiche dell’occupazione italiana della Slovenia, oppure il logoro stereotipo del bravo soldato italiano che salva gli ebrei. I fatti storici non sono però mai semplici e lineari. Raramente permettono di mettere i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ammesso che sia questo il compito di chi si occupa di storia. Le vicende del confine orientale hanno insomma tuttora bisogno di essere sottratte alla polemica politica spicciola e affidate alle ricostruzioni serene e rigorose degli storici, chiamati a evidenziare i nessi causa-effetto e a proporre spiegazioni e chiavi di lettura plausibili. Vale per l’Italia e vale ancor di più per l’incancrenito dibattito pubblico triestino. Vale come risposta davanti al pressapochismo pasticcione di chi inverte il significato di certe ormai celebri fotografie, il cui senso non riesco a credere sia stravolto ad arte ma sia invece ulteriore prova di un’incultura semplificante di fondo, che ormai è diventata vulgata. Vale per chi la mattina del 10 febbraio si sveglia e, dopo essersi disinteressato della questione per il resto dell’anno, ci delizia su Facebook con un bel «fascisti di merda» o un «maledetti s’ciavi», per poi tornare tronfio e soddisfatto alle sue occupazioni quotidiane. E, me lo si consenta, pur con tutto il rispetto per un autore che su queste cose si muove ben più agevolmente della media del giornalismo italico, vale anche per Filipaz, il cui pezzo sta facendo opinione fra molte persone di mia conoscenza. Anche fra quelli che ammettono con un sorriso imbarazzato di non essere arrivati in fondo alla lettura e che, ad ogni modo, non dispongono delle conoscenze necessarie per metabolizzare criticamente uno scritto così denso di informazioni. Ne deriva che Giap ha ormai un vero e proprio principio di autorità in materia – come Vespa, Rai Storia, il Corriere ecc. ecc. – e che è parte integrante dell’uso pubblico della storia del confine orientale.

    Il tutto sta allora nel tipo di uso pubblico che di questa storia si fa. Già, perché il 10 febbraio è stato creato ad arte dalla destra politica, per prolungare l’oblio sulle responsabilità fasciste ed evidenziare solo quelle comuniste, ma ha anche un portato più profondo. Il «tema della colpa» ha solcato tutti i tentativi di ricostruzione identitaria dei paesi sconfitti nella Seconda guerra, gettando un’ombra di discredito e sfiducia sulla nazione, come categoria sia del pensiero storiografico che dell’agire politico. Accadde anche in Italia, con l’esito di rimuovere dalla coscienza collettiva il trauma rappresentato dal consenso al fascismo, dalla disfatta, dalle mutilazioni territoriali, dalle violenze e dall’esodo. La fine della Guerra fredda riportò in auge la rivalutazione del tema della nazione nei dibattiti pubblici di tutta Europa e queste nazioni colpevoli potevano ora ricordare di essere state anche vittime. Ecco così riemergere l’esodo istriano e quello dei tedeschi dell’Est europeo all’inizio degli anni Novanta: da questo punto di vista la legge del Ricordo è anche esito di quella rielaborazione politica e culturale su scala continentale e non soltanto un rigurgito di nazionalismo e nostalgia. Al di là dei suoi fini politici, quella legge significò per molti esuli – anche quelli non inseriti nell’associazionismo: la maggioranza probabilmente – una forma di risarcimento morale dopo anni di indifferenza. E, per quanto più mi interessa, quella legge ha riportato all’attenzione dei media, nei programmi scolastici e nel campo della ricerca storica le vicende del confine orientale, come emblema su piccola scala degli eventi che funestarono il Novecento europeo. Il 10 febbraio, piaccia o no, ha insomma consentito l’approfondimento e la divulgazione – in mezzo a tanta mistificazione – riguardo al passato convulso della frontiera orientale, offrendo un’occasione per meglio raccontarlo, sebbene debba ammettere di rendermi conto che il dibattito resti ancorato al solito coacervo di mezze verità storiche. Ne sono rammaricato e mi domando allora quale sia il peso della professione di storico oggi, dal momento che appartengo ad alcune meritorie istituzioni che si occupano di queste faccende tutto l’anno e da parecchio tempo profondo i miei sforzi per raccontare la storia del confine orientale, restando debitamente estraneo alle strumentalizzazioni politiche. Qualcuno parlerebbe di torre d’avorio, ma io penso piuttosto ad un sereno distacco dal passato. Si potrebbe discutere per mesi su cosa sia la verità storica, ma oggi si può mio avviso dire con tranquillità che ricostruzioni credibili esistano ormai da un po’ su praticamente tutte le questioni che ci interessano qui. Il problema resta quello di trovare le modalità per raggiungere il grande pubblico e scavare nel suo atrofizzato cervello, anche se un mio certo pessimismo in merito al rapporto fra italiani e storia non mi consente di immaginare prospettive molto diverse da quelle attuali. Cambierebbe qualcosa spostando la data all’anniversario del trattato di Osimo? In un certo senso sì, ma la riflessione si caricherebbe di altrettante strumentalizzazioni, dal momento che quel passo diplomatico fu sovraccaricato a sinistra e dalla Democrazia cristiana morotea di un’immagine ultrapositiva e stigmatizzato dalla destra nazionalista e dalla protesta localista come l’ultimo segnale d’abbandono da parte dell’Italia.

    Per andare al sodo, a mio avviso l’articolo di Filipaz descrive bene diverse cose e la storia sua e della sua famiglia lo rendono un osservatore che immagino molto sensibile. Condivido parecchio sull’analisi del ruolo italiano nell’area di frontiera e sulla studiata omissione delle responsabilità fasciste, eppure non riesco a intravedere lo sforzo di uscire dalla semplificazione e dallo schiacciamento sul dibattito pubblico odierno, per andare verso quel «reale approfondimento» che lui stesso auspica. Peccato, proprio per quanto ho scritto poche righe fa sull’influenza di Giap nel dibattito sul tema. Per restare sull’ironia dell’autore: si tratta probabilmente di una nevrosi, con coazione a ripetere: davanti alla prepotenza della vulgata della destra, si finisce ad opporre una lettura diametralmente opposta. O meglio: alle marchiane omissioni di una parte, si risponde colmando il vuoto con altre e diametralmente opposte omissioni. Solo che dalla media di due cancellazioni non si ottiene ovviamente il risultato di una lettura accorta dei rapporti di forza del lungo dopoguerra giuliano, le cui articolazioni mi sembrano più complesse di come sono state raffigurate qui e in cui, soprattutto, non so quanto senso abbia decidere per chi parteggiare. Ammesso che uno storico possa avere un obiettivo così surreale rispetto ad eventi che incidono ancora sull’oggi – con forme a mio avviso sempre più tramontanti di revanscismo, revisionismo e neoirredentismo – ma che sono pur sempre avvenuti settant’anni fa e rispetto ai quali abbiamo ormai la giusta distanza per poterci esprimere con buon grado di tranquillità.

    Su cosa sono d’accordo. Sulle caratteristiche del fascismo di confine, sull’odiosa persecuzione delle minoranze nazionali e degli oppositori politici (cominciata peraltro già ai tempi dello stato liberale), sul ruolo della Venezia Giulia come porta delle ambizioni italiane nell’Adriatico, sull’anima nera degli esuli istriani riparati in Italia nel 1943, sulle pratiche autoassolutorie rispetto alla dittatura (cominciate nel dopoguerra e giunte fino a noi), sui trascinamenti di mentalità del dopoguerra (nel ceto politico, nei funzionari dello stato, negli intellettuali e nella gente comune), sulle continuità della classe dirigente locale e nazionale, sulle collusioni del governo con nazionalisti e neofascisti in chiave antislava, sulla chiusura dei partiti democratici triestini di lingua italiana rispetto all’uso dello sloveno, sulla linea assunta dallo stato e dagli attori periferici per effetto dell’anticomunismo, sulle violenze delle squadre neofasciste nelle strade di Trieste per tutto il primo decennio postbellico, sull’addestramento di paramilitari per presidiare i confini smilitarizzati, sulla rimozione dei «rimasti» in Istria dopo il 1954, sull’utilizzo politico dei profughi da parte delle associazioni di categoria e della Democrazia cristiana a livello locale e nazionale. Sono cose note da tempo, per la verità, e le stiamo raccogliendo alla luce di nuove fonti in un libro sul più o meno famigerato (fate voi) Ufficio per le zone di confine, che uscirà edito dal Mulino nei prossimi mesi anche sotto la mia cura. Stiamo correggendo le bozze e approfitto per fare un po’ di pubblicità!

    Ed ecco allora qualche glossa sparsa, dopo l’insopportabile pistolotto. Sono appunti sparsi, che magari si potranno meglio sviscerare nella discussione, tempo e toni permettendo. Il riferimento numerico iniziale è ai punti dell’articolo di Filipaz cui faccio riferimento. Il resto invece l’ho già detto qui sopra, per chi ha avuto la pazienza di leggermi fin qui.

    3. La prima cosa che mi ha colpito è l’ormai trita citazione dell’importante storico della chiesa Giovanni Miccoli. La frase è estratta dal «Bollettino dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia», oggi divenuto «Qualestoria», rivista semestrale di cui sono attualmente indegno direttore. Miccoli scriveva negli anni Settanta e potrei riportare per intero altri suoi brani – ad esempio l’introduzione del datato ma meritorio Nazionalismo e neofascismo al confine orientale, 1977 – in cui lamentava l’assenza di una lettura di classe della storia del confine orientale. Chi avrà modo di leggere quelle pagine si renderà conto che erano davvero altri tempi: il nazionalismo triestino era attivo, il neofascismo rampante e implicato nelle stragi, l’antislavismo serpeggiava nella società triestina, le memorie erano ancora fresche e il lavoro dello storico era congiunto quasi sempre alla militanza politica. In un clima di quel tipo, Miccoli denunciò come aberrante l’accostamento tra «foibe» e Risiera: lui per primo finì per prestarsi in un certo senso alla semplificazione semantica di cui Filipaz ben racconta, alla luce del recente contributo di Tenca Montini. La tesi di Miccoli è stata nel tempo messa in discussione con diverse sfumature da numerosi storici triestini di valore e non certo ascrivibili di simpatie per la destra e il nazionalismo. Oggi quei fatti andrebbero visti probabilmente in modo più laico, alla luce della categoria di «violenza politica», fenomeno doc e dop di tutti i totalitarismi novecenteschi. Da convinto e viscerale antifascista, non mi sogno di paragonare il ruolo avuto dall’Esercito di liberazione jugoslavo con quello dei gerarchi nazisti, ci mancherebbe, ma se di violenza politica vogliamo parlare allora l’accostamento rifiutato da Miccoli non è poi così aberrante. Tutto sta, ancora una volta, se attenersi al registro banale dell’uso pubblico della storia o a quello articolato della ricostruzione storica, vedendo di immetterlo nel dibattito.

    3-4-5. Altrettanto si dica per formule che, in questa faccenda, sono regolarmente abusate e stravolte. Filipaz ha ragione quando dice che non è esistito un genocidio dei giuliani e tanto meno una pulizia etnica, perché quanto accadde in Istria era connesso ad un processo resistenziale e rivoluzionario, che faceva dell’epurazione preventiva della dissidenza – italiana, slovena o croata che fosse – un ovvio strumento di lotta politica. L’appartenenza nazionale insomma non importava o, meglio, importava soltanto laddove conduceva al rifiuto del nuovo regime, aspetto che riguardò in effetti la maggioranza del gruppo italiano. L’autore cade tuttavia a sua volta nello scivolamento semantico, quando considera la snazionalizzazione fascista sinonimo di pulizia etnica. Quelle del fascismo furono nefandezze, ma nefandezze diverse dalla pulizia etnica: non si spiegherebbe altrimenti l’utilizzo del collaborazionismo sloveno, e collaborarono in molti, dopo il 1941 e tanto meno il desiderio che il regime aveva (anche in Alto Adige) di assimilare il gruppo minoritario ed espellerne solo le componenti irriducibili: bonifica etnica, appunto. Fascismo e titoismo costruirono entrambi tremendi campi di concentramento ma, ancora una volta, la pulizia etnica non c’entra. E così è anche assai discutibile definire l’esodo come un’emigrazione: sia perché ciò attribuisce sibillinamente agli esuli istriani una decisione del tutto autonoma, sia perché l’esodo non fu appunto né un’emigrazione né una deportazione. Per un po’ di pulizia concettuale, consiglio la lettura dell’introduzione del bel libro di Antonio Ferrara e Niccolò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate, 2012: oltre a permettere di relativizzare il dramma giuliano nel più ampio contesto del dopoguerra europeo (si pensi al caso delle minoranze tedesche), il volume offre una convincente definizione dei vari fenomeni qui in discussione e regala quindi strumenti precisi a chi decide – qui sì volontariamente – di scrivere di storia a qualsiasi titolo. Farebbe bene a molti giornalisti italiani, che usano la nozione di pulizia etnica come il prezzemolo, forse ancora influenzati dai tempi delle guerre jugoslave.

    6-9. Sarei più cauto sul rapporto fra «potere popolare» e «controllo partigiano», perché non so francamente quanto le due cose fossero distinte e siano ora distinguibili. Rabbia popolare ed epurazione organizzata furono fenomeni strettamente intrecciati e anche la nozione di jacquerie – anch’essa importata nel dibattito da Miccoli – regge poco, davanti agli esiti delle ricerche più recenti di ricercatori sloveni, croati e «italiani rimasti». Sarei altrettanto cauto nel sovrapporre quanto avvenuto in Istria con i fatti del triangolo rosso emiliano per la stessa ragione di cui sopra: gli eventi furono infatti il frutto anche e soprattutto di un’iniziativa organizzata da un potere armato rivoluzionario e non soltanto, come quelli emiliani, l’esito di una resa dei conti indotta da vent’anni di rancori.

    11. Il fascismo ebbe grande e precoce fortuna fra gli italiani del confine orientale. Il successo fu mietuto soprattutto a Trieste, dove lo squadrismo poté appoggiarsi alla tradizione liberal-nazionale e nazionalista della città, i cui esponenti cominciarono rapidamente a gravitare attorno al nascente movimento, fornendogli le coordinate culturali di cui questo aveva bisogno per rappresentare la nazione in terra di confine. Si possono agevolmente fare i nomi di Timeus e Suvich per il confine orientale, ma è bene ricordare pure Tolomei per quello settentrionale. Più contenuta fu la fortuna in Istria, dove il contrasto con il socialismo fu meno intenso e dove si registrava un’importante tradizione cattolico-popolare, con molta presa sulle giovani generazioni delle cittadine istriane. Le cose furono insomma più sfumate e si dovrebbe quantomeno considerare il radicamento dell’irredentismo in Istria, certamente minoritario in generale, ma rilevante nel pensiero delle élite. Un irredentismo che – al contrario di quanto si sostiene qui – al momento della sua nascita non era ancora frammisto ad idee nazionaliste, ma puntava anzi alla liberazione dei popoli affratellati dal giogo austriaco. Annoto infine che né la presenza slava né quella italiana possono essere negate in Istria fin dai tempi antichi e, almeno per quanto riguarda la mia esperienza di raccoglitore di memorie, è soprattutto la venezianità ad emergere per prima quando si ha modo di incidere su nastro le memorie degli esuli. È inoltre quasi tautologico che dalle narrazioni degli istriani vengano espunte le differenze nazionali: così come a Trieste, essi occupavano centri urbani a stragrande maggioranza italiana e la subalternità sociale degli slavi – il colono, la donna delle pulizie – faceva sì che essi fossero considerati un contorno dal gruppo nazionale dominante, al di là di quelli che erano in realtà i rapporti numerici sul territorio. A questo proposito, si dovrebbero aggiungere lunghi riferimenti al nodo città/campagna e alle contrapposte costruzioni dell’idea di nazione – volontarismo contro etnicismo, per schematizzare – ma si tratta di un excursus troppo lungo e che dò allora per scontato.

    12. Il Cln giuliano insorse il 30 aprile 1945 non tanto per l’avvicinarsi degli alleati, ma per anticipare i comunisti e dimostrare l’esistenza di una resistenza italiana nella regione. Il Cln ebbe un peso militare modesto, ma la sua democraticità è indubbia, così come il suo antifascismo, avvalorato dalle deportazioni in Germania, dagli arresti e dalle torture subite dai suoi massimi vertici. Il Cln era testimone di un’italianità democratica con un forte accento patriottico ma non nazionalista: una posizione classica in terra di confine, azzarderei. Intendeva rappresentare l’Italia prefascista – come dimostrava l’ancoraggio velleitario ai confini di Rapallo – e per questa ragione rifiutò tanto la collaborazione con il Fronte di liberazione sloveno che le alleanze proposte dai collaborazionisti triestini e della X Mas, con cui è vero che ci furono alcuni incontri. Abboccamenti coi repubblichini – e ben più avanzati – ci furono anche in Alto Adige, dove non c’era alcun pericolo comunista. Come si vede, non solo il caso non è unico – forza della comparazione! – ma è il tema della nazione a suscitare certi atteggiamenti e a stimolare quelle tentazioni di unione sacra che si verificheranno parzialmente al confine orientale nel dopoguerra.
    La situazione delle Giulie era d’altra parte unica in tutto il panorama italiano e si dovrebbe probabilmente porre maggiore accento sull’effetto militare, politico e psicologico che avevano avuto il passaggio dei comunisti giuliani al Fronte di liberazione sloveno nel 1944 e l’arcinoto eccidio di Porzus, unico caso in Italia di scontro in armi fra partigiani comunisti (filojugoslavi) e partigiani non comunisti. La situazione era così tesa e intricata che non mancò chi – con affermazioni mai confermate – sostenne che l’arresto e l’uccisione dei leader comunisti filoitaliani del Cln giuliano, da cui prese avvio lo spostamento del comunismo giuliano su tesi pro Jugoslavia, fossero stati provocati da una delazione slovena.
    L’ultima notazione è su Gladio, che nacque nel 1956 e non nel 1945, sebbene i corpi paramilitari ebbero più di qualche punto di continuità sotto il profilo organizzativo. Nel 1945 agirono gruppi paramilitari clandestini addestrati dal governo e composti da antifascisti e neofascisti. Essi erano avallati dagli anglo-americani e questo permette di dire che l’aspetto nazionale si intrecciò in questo caso con il disegno alleato del contenimento. In aree smilitarizzate dal trattato di pace, appariva fondamentale apprestare forme di resistenza ad un colpo di mano jugoslavo, che si riteneva potesse prendere corpo al fine di supportare la temuta rivoluzione dell’Italia settentrionale. Ciò non toglie ovviamente l’esistenza della commistione fra democratici e nazionalisti, che va sottolineata senza indugi e senza tuttavia dimenticare nemmeno la contemporanea esistenza di un’agitazione rivoluzionaria nelle fabbriche (dove si andava a lavorare armati), gli scontri armati tra fazioni rivali, gli assalti con bombe a mano alle sedi politiche e sindacali avversarie e le azioni della polizia politica segreta jugoslava (Ozna, poi Udba), attiva sul territorio e coinvolta in diversi omicidi di dissidenti sloveni e croati rifugiatisi in Italia.

    14-15. Non si capisce perché attribuire volontà di espansione al movimento di liberazione jugoslavo significhi tifare per l’Asse. Né si capisce secondo quali logiche il Cln giuliano avrebbe dovuto accettare di mettersi agli ordini di un’autorità straniera, con cui non era riuscita a trovare un accordo sul destino del territorio. Filipaz si limita ad un giudizio morale personale, che mi pare poco convincente e off topic in una trattazione storiografica. La questione non riguarda qui né l’imperialismo né l’indicazione di obiettivi territoriali a scopo propagandistico. Il progetto rivoluzionario jugoslavo era dotato infatti di una forte impronta nazionale e nazionalista, necessaria per la mobilitazione delle popolazioni rurali: la cosa non può essere sottovalutata da chi si occupa di storia e deve quindi guardare anche alle dinamiche di lungo periodo. L’idea di nazione promossa dal movimento resistenziale sloveno era ampiamente mutuata dal pensiero liberal-nazionale prodotto dagli intellettuali sloveni nell’Ottocento, ovviamente aggiornato con la solidarietà proletaria. Si trattava in pratica di estendere il controllo all’intero territorio etnico, fino alla Slavia Veneta. Traggo questi brevi tratteggi da un saggio in uscita del mio amico Jože Pirjevec. All’Ottocento risalivano più generalmente le frizioni etniche fra italiani e slavi nello spazio imperiale asburgico: un fenomeno di lunga durata, dunque, che riguardò tutte le zone mistilingue dell’impero e che non può essere espunto da un’analisi rigorosa dei nessi causa-effetto nel secondo dopoguerra giuliano, esattamente come l’impatto del fascismo.
    La lotta di liberazione jugoslava fu un impasto di nation building e rivoluzione. Le due cose non sono sganciabili: il movimento di liberazione jugoslavo era in effetti politicamente misto, ma non fu certo sulla proprietà privata che basò la sua compattezza, bensì sul sentimento nazionale. Trieste diventava così allo stesso tempo meta agognata per due ragioni: sbocco al mare degli sloveni e città di industrie e operai, fondamentale quindi per il processo rivoluzionario e nazionale insieme. I garibaldini contribuirono alla resistenza, ma in posizione subalterna e furono spesso impiegati nei teatri più cruenti e lontani dalle terre cui appartenevano. Le autorità jugoslave tentarono in effetti la carta internazionalista della Fratellanza italo-slava, ma nel dopoguerra gli organi politici furono controllati in buona parte da sloveni e croati, incluso l’autonomo Partito comunista giuliano.

    16-17. Le cause dell’esodo sono una questione assai discussa e molto più articolata di come presentato. La loro riduzione a problema di ordine sociale è un’argomentazione nota e in parte del tutto fondata, spiegabile con la crisi economica del territorio, con il sovvertimento del ruolo dei ceti dominanti e con l’impoverimento dei lavoratori transfrontalieri dovuto all’introduzione della jugolira, contro cui protestarono vibratamente gli stessi operai capodistriani (tremendamente repressi). Le ragioni materiali non possono tuttavia nascondere elementi che furono altrettanto importanti: il ricordo delle violenze postbelliche, il cambio di regime politico, la non accettazione di divenire minoranza nazionale, i sentimenti anticomunisti della maggior parte degli istriani, le difficoltà di ambientamento dei militanti comunisti all’interno della Fratellanza, il passaggio di quasi tutti gli italiani comunisti al cominformismo nel 1948, anche in reazione al trattamento ricevuto sotto il profilo nazionale. Le violenze durante le elezioni in Zona B del 1950 non possono essere liquidate come semplici atti teppistici: si trattò invece di una violenza organizzata, dovuta al fatto che gli italiani avevano opposto resistenza passiva verso una consultazione non democratica e di impostazione rivoluzionaria. Resistenza passiva che fu fortemente incentivata dal governo attraverso il Cln dell’Istria.
    È vero che i vertici jugoslavi e sloveni volevano mantenere gli italiani in loco – per ragioni politiche, economiche e di immagine – ma la Fratellanza non prese realmente piede, come ben dimostra la scarsezza di firme per l’annessione alla Jugoslavia raccolte nelle città costiere della Zona B nel 1946. La pressione ambientale dei militanti di base e dei vertici locali era molto forte, non in nome della pulizia etnica ma dell’identificazione fra italiano e fascista prodottasi in vent’anni di regime. Il bilinguismo venne introdotto ma in modo insoddisfacente per la minoranza, che si lamentò per i testi scolastici mal tradotti e per l’ideologizzazione dell’insegnamento. Non che il gruppo sloveno a Trieste se la passasse meglio, data la chiusura dell’antifascismo locale al bilinguismo nel centro cittadino e l’esclusione – condivisa dal governo – di ogni ipotesi di confronto politico anche con le componenti anticomuniste del gruppo sloveno.
    Restare non era insomma una scelta semplice. L’esodo da Pola fu non a caso una fuga – organizzata ma pur sempre fuga – non desiderata dal governo e spinta anche dall’esplosione di Vergarolla, oscuro e mai chiarito episodio, in cui persero la vita molte persone e le cui origini sono state attribuite alla casualità come al disegno di ogni tipo di mano. Non credo possa essere suffragata da fonti – se ci sono sarei anzi molto interessato a conoscerle per i miei attuali interessi di ricerca – l’idea di una spinta di Roma all’esodo. Lo stesso dicasi per il Cln dell’Istria – antifascista, irredentista e revisionista, ma mai colluso con il neofascismo – che ricevette ampie sovvenzioni dal governo proprio per tenere in piedi una rete assistenziale clandestina mirante a mantenere sul territorio gli istriani della Zona B indecisi sull’opportunità di rimanere.

    24. Storia di un esodo non è un libro maledetto. È un libro che ha molto circolato anche in ambiente istriano e che l’Irsml Fvg ha da tempo reso disponibile on line a titolo completamente gratuito, anche su impulso del sottoscritto: https://books.google.it/books?id=uYNYJJ5kiBwC&pg=PR2&lpg=PR2&dq=storia+di+un+esodo+ferrari&source=bl&ots=XlOEGF_rbv&sig=RTx62kg2U2rpghun28J4ifpdkxM&hl=it&sa=X&ei=MUnZVNOYMYj7PKKNgHg&ved=0CDoQ6AEwBQ#v=onepage&q=storia%20di%20un%20esodo%20ferrari&f=false

    La bibliografia proposta in nota mi sembra un po’ lacunosa. Mancano ad esempio almeno i lavori di Apih, Nemec, Pupo e Valdevit, che si sono misurati su vari aspetti della violenza politica al confine orientale, della gestione politica del territorio da parte italiana e dell’esodo istriano. Questi autori possono essere anche non condivisi e discussi in modo critico, ma la loro omissione dalla riflessione mi sembra francamente ingiustificata. Allo stesso modo non comprendo perché ignorare del tutto i risultati della «Commissione storico-culturale italo-slovena», che nel 2001 mise a punto una ricostruzione congiunta delle storia di queste terre. Fra l’altro, credo sia interessante notare che la Commissione affermò che «tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra, e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato». E che, in tali progetti, «l’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani». Tornando alla psicoterapia, mi pare che elidere queste considerazioni rappresenti un notevole processo di rimozione.

    Concludo dicendo che il punto forse non è (o almeno non è più) continuare a lamentare uno stravolgimento della verità storica nell’uso pubblico, che sono il primo a riconoscere, denunciare e combattere, pur coi pochi mezzi a disposizione del ricercatore. Si tratta invece di capire in quali forme sia meglio rappresentare quelle vicende e dare equilibrio alle memorie, affinché tutto questo arrivi al grande pubblico in modo onesto, venendo metabolizzato al di fuori di una polemica politica, che è ancora calda e che mi sembra sempre più assurda e fuori dal tempo. Non mi pare che l’articolo ospitato su Giap ci abbia provato, al di là degli iniziali auspici formulari, e la «verità storica» vaga ancora in cerca di pace, coperta da una miriade di approssimazioni più o meno dolose.

    • Scusa se te lo dico, ma trovo il tuo commento, a dispetto delle tue dichiarazioni d’intenti, estremamente politico. E va bene così, intendiamoci. Io non sono capace di scrivere preamboli kilometrici, quindi vado subito al sodo, e ti rispondo in termini politici.

      Tu sostieni che il giudizio di Miccoli sull’aberrazione dell’accostamento foibe-risiera sia un giudizio politico che risente del clima degli anni settanta. Io sostengo che il tuo giudizio possibilista su tale accostamento sia altrettanto politico, e che risenta del clima pappa&ciccia di questi anni iper-ideologizzati dell’ideologia melassa nazional-popolare (e non uso il termine in senso gramsciano, ma in senso brunovespiano).

      Non ti piace Miccoli? Allora vediamo cosa diceva Galliano Fogar, esponente storico del CLN triestino, nel 1983:

      Alla tesi dei «nazionalsciovinismo» balcanico si affianca, ma con una variante, quella emersa anche al processo per i crimini nazisti alla Risiera di S. Sabba (l976). La Corte nella sua sentenza equipara i metodi dell’occupatore nazista a quelli dei movimento di liberazione jugoslavo sottolineando come al termine delle imprese dell’Einsatzkommando con il crollo nazista, la città venne «ancora una volta e in modo non meno esecrando, tragicamente insanguinata». Foibe e Risiera assumono qui il significato emblematico di due connaturate vocazioni alla violenza e al disprezzo dei diritti umani realizzati con metodi identici da nazisti e jugoslavi. Il giudizio morale di condanna di tali comportamenti riferiti a due forze politiche e militari straniere insediatesi nella città e nella regione in una determinata fase storica, sottende un giudizio politico di affinità fra le ideologie, i sistemi e gli obiettivi di guerra di entrambi. Ed è un giudizio storicamente aberrante ma che trova suoi punti di riferimento nel retroterra politico e culturale di quella parte della borghesia triestina che dall’irredentismo al fascismo al postfascismo ha professato e mitizzato assieme al concetto di Patria, di Nazione, di Civiltà, la religione dell’ordine di fronte ad ogni «sovversivismo» e che ha sempre considerato il movimento nazionale jugoslavo come una minaccia perenne all’italianità ed al proprio ruolo civile e sociale. E tuttavia si resta sconcertati di fronte a questo modo di valutare ancora oggi un processo storico che ha visto il nazismo teorizzare ed imporre nei fatti, un imperialismo sfrenatamente razzistico e non solo espansionistico sotto il profilo economico, politico e territoriale. Che ha teorizzato e praticato la trasformazione di interi popoli, classificati come
      biologicamente «inferiori», in manodopera al servizio del Terzo Reich, un servizio che contemplava anche l’eliminazione fisica attraverso il lavoro. Che ha realizzato questi principi e programmi con i metodi della «guerra totale». Come ha scritto e documentato Enzo Collotti, il ruolo delle popolazioni dell’area europea sudorientale nel Nuovo Ordine Europeo, doveva essere quello di fornitrici di braccia e di prodotti agricoli e la loro sopravvivenza sarebbe dipesa unicamente come «atto di grazia o pura discrezionalità da parte della Germania se non addirittura del Fuerer»

      Chiarito questo punto, trovo estremamente politica anche la tua difesa del “giorno del ricordo” e la tua tesi che l’istituzione di tale ricorrenza sia stata utile allo sviluppo della ricerca storica. L’istituzione di una ricorrenza è un atto politico. E il dispositivo politico di tale ricorrenza è molto chiaro: proporre (e imporre) una lettura a senso unico delle vicende del confine orientale. Che poi è la lettura espressa della borghesia triestina compromessa col fascismo prima e con gli occupatori nazisti poi. Quella borghesia che non ha mai fatto i conti con niente di niente. Come questo dispositivo possa essere utile alla ricerca storica mi risulta del tutto incomprensibile. E infatti i risultati sono sotto gli occhi di tutti, a partire dalla sfilza di foto utilizzate in modo truffaldino messe in evidenza qua sopra.

      • P.S. Il testo di Galliano Fogar è tratto da questo articolo:

        http://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=6977

        Notare che nel 1983 Fogar già criticava il mainstream *nazionale* sui temi giuliani, sottoponendo a una disanima severissima una pubblicazione divulgativa della Mondadori.

        Sempre a proposito di “silenzio assordante durato 60 anni”….

      • Tuco, io ti ringrazio davvero perché dimostri involontariamente che quanto affermo è fondato: il pubblico che partecipa – spesso anche con grande interesse – al dibattito su queste vicende taglia le cose con l’accetta.
        Miccoli e Fogar sostengono infatti tesi molto diverse, anche se quell’«aberrante» può trarre effettivamente in inganno. Qui potete leggervi per intero Miccoli: http://www.diecifebbraio.info/2013/05/risiera-e-foibe-un-accostamento-aberrante-articolo-di-giovanni-miccoli-del-1976/. L’accostamento era da lui considerato aberrante perché, dal suo punto di vista, le violenze del 1943-45 sarebbero state prodotte da un moto popolare spontaneo: la famosa jacquerie. Una lettura storiografica prima che politica. Solo che quel tipo di ricostruzione è stata ampiamente smentita da studi più recenti e informati, che sostengono a ragione che quelle violenze vadano inquadrate in un processo rivoluzionario guidato da un potere armato. Ci fu sicuramente un elemento di spontaneità dal basso, ma le cose non si spiegano senza la presenza del Partito e dell’Esercito. L’accostamento va quindi inquadrato nella «violenza di stato», che nel caso jugoslavo era uno stato in via di creazione, ma già dotato di un’organizzazione notevole sul territorio.
        La distinzione che propongo riguarda dunque questo e non la grandissima differenza di metodi e finalità fra gli occupanti tedeschi e l’esercito di liberazione jugoslavo: che è quello di cui parla invece Fogar, il quale si riferisce espressamente a «forze politiche e militari straniere insediatesi nella regione» e non a un sollevamento popolare, che infatti non è mai nemmeno nominato… La differenza fra tedeschi e jugoslavi non ho mancato di metterla in luce, ma forse ritieni che la mia sottolineatura sia troppo debole. Eppure io ho parlato di differenza di ideologia, metodi e obiettivi: cose che sono indiscutibile. Dire che il mio riferimento alla categoria di «violenza politica» (o violenza di stato) sia una posizione politica è una panzana ed è pure un po’ offensivo nei confronti della mia onesta intellettuale: si tratta infatti di una tesi storiografica, che peraltro io faccio mia e che non è certo farina del mio sacco. E si tratta di giudizi storiografici – consiglio la lettura di Valdevit su questo – maturati ampiamente prima del Giorno del ricordo e della comparsa di Porta a porta.
        Faccio ancora notare che in quell’articolo Miccoli definiva la Risiera un campo di sterminio, categoria che non la riguarda affatto, essendo la Risiera un campo di polizia. È il rischio di semplificazione di cui dicevo prima: si ammazza sia a Treblinka e che a Trieste, nel quadro dell’universo violento e concentrazionario nazista, ma nel primo caso il campo è di sterminio, nel secondo di polizia, perché le funzioni delle due strutture sono diverse. È una tesi politica anche questa oppure è storiografia? La ricostruzione del passato, se si vuol farla seriamente, è ricca di sfumature e mi rendo conto che sia difficile comunicarle ad un pubblico la cui modalità di lettura prevede ormai una permanenza su una pagina web di nemmeno sessanta secondi.
        Altro taglio con l’accetta è la «difesa» che dici io abbia fatto del Giorno del ricordo, attribuendomi inoltre una serie di cose che non ho detto: complesso discutere così, dovendo giustificarsi anche per affermazioni mai affermate. La mia tesi ha rimarcato tanto l’evidente strumentalizzazione politica della data, quanto alcune opportunità che essa ha fornito. Fornito indirettamente, sia chiaro, perché l’intento della destra non era certo l’approfondimento «scientifico» sul tema ma l’affermazione di una lettura a senso unico, esattamente come dici tu. Solo che la cosa ha riportato – volente o nolente – alla ribalta le vicende del confine orientale e dato modo a noi (che di destra proprio non siamo, anzi) di lanciarci su progetti di ricerca, tesi di dottorato, convegni, conferenze, scrittura di libri. Perché si fa ricerca anche sfruttando filoni che sono momentaneamente – e vedrai che fra un po’ il battage si spegnerà di nuovo anche sulla Venezia Giulia – di moda. Vedasi il profluvio di pubblicazioni sul centenario della Prima guerra.
        Ripeto: il problema è trovare la chiave per «volgarizzare» le ricostruzioni più attente e renderle strumento di conoscenza al grande pubblico. Che sia una operazione difficile, sono il primo ad ammetterlo, come ben dimostra la sequenza di fotografie che hai raccolto e che dimostra la sufficienza e l’incultura con cui la cosa viene trattata.

        • Ma vedi D’Amelio, io invece ritengo che a tagliare con l’accetta sia proprio tu, al netto del profluvio di parole con cui simuli una complessità di interpretazione che, se si va al sodo, non si intravvede minimamente. Ad esempio: inquadrare la Risiera nella categoria di “violenza politica” significa tagliare con l’accetta, perchè la Risiera era anche il terminale di partenza dei trasporti degli ebrei ad Auschwitz, e direi che lo sterminio degli ebrei non si possa proprio derubricare a “violenza politica”. Per lo stesso motivo trovo anche capzioso attaccarsi alla definizione burocratica di “campo di polizia”. In un contesto in cui ad esempio essere ebrei o zingari era illegale, il primo passo verso la camera a gas di Auschwitz consisteva nel venire arrestati nel corso di un’operazione di polizia. Inoltre operazioni di polizia erano anche i rastrellamenti indiscriminati di civili sloveni e croati nelle zone in cui agivano i partigiani: rastrellamenti che si risolvevano in incendi, massacri, e infine deportazioni in Germania via Risiera. Trovo singolare che da un lato si estenda il concetto di foiba fino a includere i campi di prigionia come Borovnica, in modo da aumentare il numero dei morti, e dall’altro si restringa il significato della Risiera alla sua mera definizione burocratica, dimenticandosi del sistema di cui il campo faceva parte. Il combinato disposto di questo stringere e allargare l’inquadratura è politico, sì.

          Per quanto riguarda il “giorno del ricordo”, ribadisco che quando una legge dello Stato indica la direzione e i termini entro cui si deve svolgere la ricerca storica, si è su una brutta strada. E questa cosa dovrebbe porti dei problemi, in quanto storico: l’approvazione della nuova legge sul negazionismo, già preoccupante di suo per motivi spiegati da molti storici, è oggi accompagnata da richieste di estenderla a chi presuntamente “nega le foibe”. Anche a queste schifezze porta la “mono-direzionalità” del Giorno del Ricordo.

          • “[…] simuli una complessità di interpretazione che, se si va al sodo, non si intravvede minimamente”. In effetti, se lo dici tu.

            Mi cascasse la testa se un solo studioso di mia conoscenza abbia mai subito diretti o indiretti condizionamenti in merito alle sue ricerche su questi temi, come conseguenza dell’istituzione della legge del 10 febbraio. E ti prego di credermi perché sennò costruiamo ad arte realtà che non esistono. Ferma restando l’unidirezionalità del discorso pubblico, su cui convengo con te.

            Sul negazionismo non spendo una parola, perché è una questione gigante e non è questa la sede.

  11. Questi sono i loghi delle associazioni che hanno partecipato alla produzione del documentario “Le radici del ricordo”, distribuito dalla regione veneto a tutte le scuole e istituti, e trasmesso nelle aule ai nostri ragazzi. Da notare soprattutto la fascista compagnia dell’anello https://drive.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMSEQ3aE9xNVhVdU0/view?usp=sharing

  12. […] è solo un piccolo addendo al bellissimo post di Lorenzo Filipaz «Foibe o esodo? Frequently Asked Questions sul Giorno del Ricordo», che negli ultimi due giorni ha avuto un vero boom di […]

  13. Scrive D’Amelio:

    È inoltre quasi tautologico che dalle narrazioni degli istriani vengano espunte le differenze nazionali: così come a Trieste, essi occupavano centri urbani a stragrande maggioranza italiana e la subalternità sociale degli slavi – il colono, la donna delle pulizie – faceva sì che essi fossero considerati un contorno dal gruppo nazionale dominante, al di là di quelli che erano in realtà i rapporti numerici sul territorio. A questo proposito, si dovrebbero aggiungere lunghi riferimenti al nodo città/campagna e alle contrapposte costruzioni dell’idea di nazione – volontarismo contro etnicismo, per schematizzare – ma si tratta di un excursus troppo lungo e che dò allora per scontato.

    Tautologico fino a un certo punto, visto che lo stesso D’Amelio sembra dimenticare che a cavallo del XX secolo tra gli sloveni (e croati) di Trieste non c’erano solo coloni e donne delle pulizie (che all’epoca, forse con maggiore onestà, si chiamavano semplicemente serve), ma anche un nutrito ceto borghese, che era sufficientemente ricco e organizzato da riuscire a erigere in centro città un monumentale centro di aggregazione polifuzionale noto con il nome di Narodni dom, dato alle fiamme dagli squadristi nel 1920 e ormai conosciuto anche dall’opinione pubblica italiana grazie a Boris Pahor. Già prima, nel 1861, proprio a Trieste fu aperta anche la prima čitalnica (sala di lettura) slovena, la cui funzione è sicuramente nota a qualsiasi storico che si occupi di confine orientale. Arcinoto è anche il fatto che il fascismo in seguito si premurò di colpire pesantemente proprio questa classe borghese, con lo scopo di ridurre e schiacciare la comunità slovena agli stereotipi già largamente diffusi presso la popolazione italofona che vedeva negli sloveni (e croati) un’accozzaglia di zotici priva di storia e di cultura. Un’operazione di bonifica etnica (e sociale) perfettamente riuscita, tra l’altro, considerata l’entità delle emigrazioni di giuliani sloveni e croati verso il Regno jugoslavo in quelli che D’Amelio definisce “esodi”. “Esodi”, proprio così, tra virgolette, chissà perché. Forse per lo stesso motivo che lo spinge a usare l’iperonimo “slavo” per indicare popolazioni diversissime tra di loro o a usare i termini “giuliano” e “istriano” come sinonimo di italiano, quando sa benissimo che esistono anche giuliani e istriani slavi e istriani venetofoni che non si identificano come italiani?

    Che dire, poi, della seconda parte dello stralcio riportato sopra, dalla quale per gli sloveni – o per gli slavi meridionali in genere? – emerge neanche tanto velatamente un meccanismo di identificazione nazionale basato sul concetto di blut und boden? Beh, io non darei tanto per scontato che l’identificazione degli italiani in queste zone passasse solo attraverso un’opzione culturale, mentre quella degli sloveni passava esclusivamente attraverso “il sangue e il territorio”. Quale territorio? Per secoli non c’è stato alcun territorio, e al suo posto c’erano la lingua e la cultura a fare da collante e da elemento unificatore. C’era la bibbia del protestante Trubar prima, e la poesia di Prešeren dopo. Etnicismo? Può darsi, ma se etnicismo fu, era quantomento un etnicismo un po’ sui generis, distante anni luce da quel concetto di lebesraum che in seguitò armò le mani di cetnici e ustascia.

    Insomma, può anche darsi che l’articolo di Lorenzo pecchi di qualche omissione o semplificazione, ma mi sembra che anche l’intervento di D’Amelio non ne sia completamente immune. Per quanto ne so, Lorenzo non è uno storico e non ha la pretesa di aver scritto un saggio storiografico inappuntabile, ma piuttosto una riflessione ragionata e documentata su avvenimenti dolorosi che lo riguardano in prima persona. D’Amelio invece è intervenuto proprio in qualità di studioso e ha scritto un commento lunghissimo, dimenticandosi però di citare fatti fondamentali che sono noti anche a chi come me non è né una studiosa né un’intellettuale in senso lato. Omissioni volontarie o semplici dimenticanze? Se di dimenticanze si tratta, direi che si inseriscono perfettamente nel quadro della mancata autonalisi delineato da Lorenzo.

    • Ecco come veniva raccontata la “scomparsa” delle associazioni culturali slovene in una guida del CAI del 1930:

      Secondo Salvemini invece:

      “Le 444 scuole popolari con 52 mila alunni, che esistevano nella Venezia Giulia al 1923, erano sparite tutte, meno una, al principio dell’anno scolastico1928-29. L’ultima scuola, che a Trieste raccoglieva più di 1000 bambini e bambine, fu chiusa il 22 settembre 1930, alla riapertura delle scuole, appena finita la solenne messa d’inaugurazione. Le autorità ebbero il gentile pensiero di scegliere proprio quel giorno e quel momento per annunziare ad insegnanti e ed alunni il decreto di chiusura.”

      “Non si possono spedire libri slavi per posta. Se il destinatario è un uomo fortunato, il libro è semplicemente trattenuto all’ufficio postale o al fascio, o rinviato al mittente con l’annotazione che è stato rifiutato dal destinatario. In molti casi questi deve dichiarare che non ordinò il libro in questione. Se egli rifiuta di far questo si rivela per un »antinazionale« e quindi un fuori legge: rischia perciò la licenza, se è un bottegaio o un oste, la sua pensione se è un ex-funzionario o un mutilato di guerra; oppure va a fare in prigione tanti giorni di villeggiatura quanti la polizia reputa necessari per ravvivare il suo lealismo nazionale.

      Nell’autunno 1927, libri slavi, presi nel saccheggiato Club sloveno di S. Giovanni di Guardiella (Sveti Ivan) e portati in processione per le vie di Trieste, furono bruciati sulle piazze dai fascisti. Nel 1927 e ’28, venti casi di diffusione di libri slavi furono portati dinanzi ai tribunali nei distretti sloveni di Tolmino. Comeno, Aidussina e Castelnuovo d’Istria. Gli imputati furono condannati a multe fino a 400 lire, ed uno di essi fu tenuto in prigione per due mesi. Quest’ultimo, certo Slavko Tuta, di Tolmino, era colpevole di detenere parecchie copie di Prvi koraki, libretto per la prima elementare, pubblicato due anni prima col consenso delle autorità fasciste; detenendo e distribuendo quel libro, si era reso colpevole di »diffondere la lingua slava tra la nuova generazione di slavi, a detrimento della lingua italiana«. Dopo che egli ebbe scontato la pena, la Corte di Appello lo assolse per »mancanza di prove«, ma la Commissione provinciale lo confinò per tre anni all’isola di Lipari.

      Durante il novembre e dicembre del 1928, i carabinieri del distretto di Gorizia perquisirono le case private e confiscarono più di 15.000 libri slavi. Ogni anno la Società di S. Ermacora pubblica un calendario in sloveno ad uso della popolazione rurale, in 20.000 copie; la censura ne permette la pubblicazione, ma pochi giorni dopo che la vendita è incominciata, i carabinieri cominciano a perquisire le case dei contadini e a sequestrare il calendario.”

  14. Ferma ferma. Zora ha ragione, perché la mia frase si può leggere molto male, in effetti. Mi scuso: ho scritto di fretta. Intendevo dire che la situazione dei centri italiani d’Istria era simile a quella di Trieste dal punto di vista dell’insediamento etnico. Poi avrei dovuto mettere un punto. Sul prosieguo della frase – la subalternità sociale ecc. ecc. – mi riferivo infatti soltanto all’Istria, dove il risveglio del ceto borghese sloveno/croato era ad uno stadio decisamente più involuto rispetto a Trieste. Qui invece la borghesia slovena era in fermento dalla seconda metà dell’Ottocento e mi dispiace se in tutta quella logorrea non l’ho sottolineato adeguatamente. Appunto soltanto che questo risveglio – visto che stavamo parlando di memorie e autoperecezioni – non può tuttavia far pensare ad un cambiamento repentino nell’autorappresentazione degli italiani, che si sentivano i «padroni». Vi potrei fornire magnifici stralci di come democraticissimi antifascisti italiani scrivessero nel dopoguerra, senza porsi alcuna domanda evidentemente, dall’identità rurale e campagnola del mondo sloveno di Trieste, buono solo per frequentare scuole per la formazione di agricoltori… Ecco, spero di aver tolto un elemento di polemica dal tavolo: non era mia intenzione sminuire alcunché.

    La bonifica etnica non è vero che riuscì perfettamente, tanto che si parla proprio di «nazionalizzazione imperfetta». Se ne andò una parte e gli altri non si assimilarono, ma anzi resistettero tenacemente: i processi spettacolo del Tribunale speciale si tennero a Trieste proprio a scopo intimidatorio. La stessa imperfezione si ebbe anche in Sudtirolo. In entrambi i casi il ruolo del clero non fu secondario nella resistenza all’assimilazione.

    Ho messo «esodo» fra virgolette, perché stavo parlando di una categoria storiografica e volevo far intendere che fosse un termine preso a prestito da una ben precisa definizione. Tutto qui.

    Sul termine «slavo» abbiamo già discusso qualche tempo fa ed è un’obiezione che mi fa sorridere. Pirjevec lo utilizza ad esempio senza alcun problema quando parla ad esempio di sloveni o di croati: lo scrive come un sinonimo. Se vuole le dò il suo recapito così può accusarlo di bieche tendenze antislave, di cui Pirjevec è, come tutti sanno, noto propugnatore… Insomma, facciamo polemica sensata o evitiamo.

    «Giuliano». A me risulta che Venezia Giulia sia un termine coniato in ambienti nazionali e irredentisti da un tale Graziadio Ascoli. Non credo esista un solo sloveno che si definisca giuliano, bensì appartenente al Litorale. Con «istriano» ho inteso spesso parlare di popolazione parlante l’italiano, è vero, per mera comodità e, ora che me lo fa notare, effettivamente anche per quel martellamento che porta a impigrirsi sul lessico. Questa obiezione sull’uso del termine «istriano» può comunque rivolgerla anche a Filipaz, mi pare…

    Certo che emerge un meccanismo di identificazione blut und boden. È la lettura etnicista della nazione, bellezza! Mica me la invento io. C’è fior fiore di letteratura slovena ottocentesca su cos’è il territorio. Attenzione: una cosa è il territorio, un’altra la nazione, un’altra ancora lo stato coi suoi confini politici. Gli sloveni avevano diverse idee su come dovesse comporsi lo stato e queste idee si inserivano nel dibattito sul cosiddetto trialismo asburgico. E molti intellettuali ritenevano che i confini dovessero appunto includere il territorio dove si parlasse la lingua slovena e ci fosse la cultura slovena: questa sarà l’idea che prevarrà. Non capisco dove fondi le sue obiezioni, in tutta onestà. E non vedo cosa c’entri il nesso fra concezione etnicistica della nazione e Lebensraum. Vabbè, faccia lei.

    • Sarò un po lungo e mi scuso.
      Caro D’Amelio, innanzitutto il mio nome vero: Sandi Volk.
      Occhio alla testa, D’Amelio. Scrivi infatti “Mi cascasse la testa se un solo studioso di mia conoscenza abbia mai subito diretti o indiretti condizionamenti in merito alle sue ricerche su questi temi.” Ebbene, prova a chiedere a Purini (che ne sa molto anche su come vanno i concorsi per i dottorati), o a me stesso. Quando è uscito “Esuli a Trieste” uno dei personaggi in posizione di rilievo in “alcune meritorie istituzioni che si occupano di queste faccende tutto l’anno” (aggiungerei un purtroppo) ha affermato che c’erano scritte cose che a Trieste non si potevano scrivere. Non che ho scritto cazzate, falsità o altro, ma cose che a Trieste NON SI POTEVANO SCRIVERE. E proprio per quello che ho scritto e scrivo ci ho pure perso il lavoro (io sono stato l’ultimo a credere che questo fosse il vero motivo) alla Biblioteca slovena. Perché sta cosa è, in un modo o nell’altro, bipartisan, bi- o sopra- nazionale. E magari prova a chiedere alla Ferrari (che ritengo una delle migliori storiche che triestine e non solo) riguardo a “Storia di un esodo” e perché poi si è occupata di tutt’altro. Il fatto che quel libro (di qualche centinaio di pagine!) stia sulla pagina web dell’IRSML non mi pare lo renda fruito e fruibile come Il Cuore nel pozzo o “Il lungo esodo” dell'”autorevole” Raoul Pupo.
      Sostieni poi che il Giorno del Ricordo è stato voluto dalla destra, quando in realtà è stato voluto altrettanto – se non più – fortemente dalla “sinistra”(nel senso di tetra, che altro non è). E’ stato preceduto e avviato dai pellegrinaggi alla foiba di Spetic e Cuperlo (PCI), dagli interventi di Spadaro (PDS), dall’incontro Violante – Fini (strano ti sia sfuggito che proprio in questi giorni a Trieste è stata messa in atto la celebrazione del decennale di tale “storico” avvenimento a cura del pittoresco inventore di foibe Lacota e dalla sua allegra banda di magnasciavi detta Unione degli Istriani), dalla decisione del sottosegretario di Fassino agli affari esteri (uno dell’allora PDS, di cui purtroppo non mi ricordo il cognome, ma le sue dichiarazioni le trovi su Il Piccolo dell’epoca della pubblicazione nella stampa slovena del testo della relazione) di non accettare le conclusioni della Commissione mista (e di non pubblicare ufficialmente la relazione) perché in essa non si diceva che foibe ed esodo sono state genocidio e pulizia etnica. Probabilmente non ti hanno detto che la legge che istituisce il Giorno del Ricordo è stata votata da buona parte del parlamento, con l’esclusione di PRC e PdCI. Quanto al ruolo di storici (?) appartenenti ad “alcune meritorie istituzioni che si occupano di queste faccende tutto l’anno”, uno di questi, Pupo, autorevole membro dell’istituto di cui dirigi la rivista, in una intervista di parecchi anni fa a un giornale sloveno (mi pare le Primorske Novice) sulla questione del Giorno del Ricordo, ha affermato papale palpale che all’inizio del nuovo secolo lui e una serie di “amici” (termine con cui si definivano tra di loro gli appartenenti alla DC, di cui, guarda caso, Pupo è stato l’ultimo segretario provinciale triestino) hanno deciso di far diventare foibe ed esodo argomento della grande storia nazionale. E ci sono riusciti. Si tratta dello stesso Pupo che nel suo (e di Spazzali) “Foibe” non ha esitato a definire il testo di Giorgio Rustia (ex presidente del circolo Contropotere di Forza Nuova nonché autore di un opuscoletto negazionista sulla Risiera) “Contro operazione foibe”, un lavoro “corposo”, pieno di “contestazioni puntuali” e di “ampia documentazione” (come vedi le “vicinanze” tra “democratici” e “nazionalisti” non sono affatto terminate), per poi definire con l’infamente titolo di “negazionisti” (senza alcuna argomentazione a sostegno) il sottoscritto e la Cernigoi. Lo stesso che per sputtanare preventivamente chi “scrive cose che non si possono scrivere” ha inventato per me una nuova categoria, quella dei “negazionisti dell’esodo”.
      Quindi mi pare molto chiaro che la questione non è per nulla storiografica, ma pienamente e prettamente politica. Perché – banalità immensa e che ti ho già scritto – la storia si scrive sempre per l’oggi e la storiografia non è mai neutra, tanto che la stessa scelta dei temi da trattare e degli approcci con cui lo si fa è questione di scelte politiche. E gli storici non stanno sulle nuvole o in torri d’avorio, ma dipendono dalle decisioni della politica per le loro ricerche (almeno quelli stipendiati dai “meritevoli istituti” e simili).
      Quello che accade oggi è che ogni 10 febbraio va in scena la beatificazione del fascismo e dei fascisti. E non da parte di CasaClown o gente del genere, ma delle istituzioni. Tralasciando i discorsi fatti dalle massime autorità della Repubblica, ogni anno l’apposita Commissione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, composta dai capi degli Uffici Storici di tutte le forze armate (quindi non Lacota o Codarin qualsiasi) consegnano ai congiunti di “infoibati” gli appositi riconoscimenti ufficiali previsti per legge. Ebbene, tra i “martiri dell’italianità” alla cui memoria sono stati attribuiti i riconoscimenti ci sono una caterva (la maggioranza) di appartenenti alla Milizia Difesa Territoriale al servizio dei nazi, alcuni personaggi che stavano sulle liste dei criminali di guerra richiesti dagli jugoslavi (alcuni con condanne passate in giudicato ed eseguite), diversi squadristi. Con il corollario di tutta una serie di altri il motivo della cui inclusione è meno chiara e con alcune perle. Fortunato Mattiassi, per il quale la MOTIVAZIONE UFFICIALE recita: “residente a Pisino, fu li fucilato il 4 ottobre dalle truppe tedesche per rappresaglia sulla popolazione a seguito della precedente occupazione titina”. O Antonio Ruffini, per il quale si è scoperto (grazie ai “negazionisti”, ma non ci voleva molto) che non è stato affatto infoibato, ma massacrato dai nazisti assieme a una ventina di altri ex militari italiani catturati mentre stavano raggiungendo le formazioni garibaldine. Per quest’ultimo la regione Molise (Ruffini era di Termoli) ha, dopo lunghe insistenze dei familiari, deciso di concedergli una medaglia d’oro come caduto partigiano e una delegazione del Comune di Termoli nel 2013 si è recata a deporre una corona sulla lapide che negli anni ’80 è stata posta a ricordo di quegli italiani a Bate, vicino a Grgarske Ravne dove è avvenuto l’episodio. Questa è la realtà. Se si voleva portare alla luce la storia del confine orientale, che anche a mio avviso contiene elementi che trascendono la storia locale, senza concedere nulla a banalizzazioni e strumentalizzazioni si poteva farlo approfondendo le ricerche e le analisi, non semplicemente facendo diventare “verità storica” le tesi sostenute dalle organizzazioni degli esuli dal ’43. Quanto al risarcimento morale che il 10 febbraio rappresenterebbe per addirittura la maggioranza degli esuli/profughi credo che dica molto la loro scarsa partecipazione alle cerimonie e spettacoli inscenati per l’occasione – probabilmente sarebbero stati molto più contenti se avessero avuto finalmente i denari che lo stato italiano deve loro da ormai parecchi decenni.
      La realtà che ti ho descritto sarebbe continuata del tutto indisturbata se un gruppo di “negazionisti” non si fosse preso la briga di confutare tutte le panzane che venivano raccontate, a volte rischiando la propria incolumità fisica. Ed è solo grazie a quel gruppo di “negazionisti” (e a tutti i compagni antifascisti – quelli veri – italiani che hanno organizzato contromanifestazioni per il 10 febbraio e dintorni e che hanno pagato con arresti e condanne) se oggi di questa cosa hanno iniziato a interessarsi anche altri e se tu hai occasione di discernerne su questo blog. Quindi per favore non venire a raccontare la favola del grande lavoro che svolgerebbe l’IRSML (e l’INSML e tutti o quasi gli istituti ad esso legati) nel combattere quelle che definisci “banalizzazioni” e “strumentalizzazioni della destra” del 10 febbraio. Tale lavoro non esiste proprio, anzi, gli istituti menzionati si sono distinti e si distinguono per aver dato spazio e legittimazione alle organizzazioni degli “esuli di professione” e nel delegittimare i “negazionisti”.
      Quello che stà avvenendo è la costruzione di un nuovo sentire comune nazionalista, di una ri-nazionalizzazione delle masse, di cui il Giorno del Ricordo è parte importante, caratterizzato in parte dal vittimismo, ma sopratutto dalla criminalizzazione della resistenza comunista (o comunque non semplicemente “patriottica”). A mio avviso il tuo problema e che sei pienamente dentro questo meccanismo. Mentre infatti affermi che la lettura di classe della storia del confine orientale sia datata e superata, quasi anacronistica, cosa proponi come nuovo? Il ritorno agli anni ’50 (almeno) con una lettura della storia in chiave esclusivamente nazionale. O il ricorso a categorie quali “violenza politica” vuote di ogni senso. Al massimo arrivi a proporre come strumento di analisi delle questioni nazionali il rapporto, questo si datatissimo (neanche Vivante l’utilizzava più), città/campagna. Per poi proporre come portatori di letture “nuove” testi che si riducono ad interpretare la storia alla luce del “bisogno di sicurezza” (Valdevit), o a rappresentare come complessivo il punto di vista di una borghesia slovena ultraminoritaria e travolta dalla storia (Verginella) o che fanno ricorso a categorie “scientifiche” quali “il sentimento di italianità” (Pupo). O, ancora, che sono costretti a non scrivere quanto emerge chiaramente dai loro lavori perché non accettabile per gli editori (Nemec). E chiedi di giurare sulla relazione della Commissione italo slovena, che da una interpretazione in chiave esclusivamente nazionale delle vicende storiche ed è un “compromesso” tra due storiografie nazionali. Ma come, prima dici che la storiografia si distingue solo ed esclusivamente in rigorosa e non rigorosa nell’utilizzo delle fonti e poi ci chiedi di giurare su un testo la cui autorevolezza deriva solo dal fatto di essere (o voler essere) una sorta di “storia di stato”? Senza discuterne la rigorosità nell’uso delle fonti?
      Neoirredentismo, nazionalismo, fascismo non sono per nulla tramontanti, ma hanno modi e metodi diversi, uno dei quali è quello di presentarsi come vittime “solo perché italiani”. E non si tratta di un fenomeno solo italiano, ma almeno europeo, di cui i nazisti al governo in Ucraina sono solo l’esempio più eclatante.
      Vorrei anche porti una serie di questioni. Innanzitutto ti chiederei chi è dove, tra gli storici più o meno rigorosi, identificherebbe gli italiani dell’Istria come fascisti in toto e la Jugoslavia come il paradiso in terra? Critichi Filipaz per un presunto moralismo e poi scrivi di “orrori del comunismo”? Non è un giudizio morale? Quali sarebbero queste ricostruzioni credibili ormai disponibili su tutti i fatti di cui stiamo discutendo? Quelle citate sopra?
      Ti informo poi che l’amnistia Togliatti (che giudico un’errore terrificante) è stata approvata dal intero Consiglio dei Ministri dell’epoca, di cui facevano parte anche socialisti ed azionisti. Parli del fatto che studi più recenti e informati, di sloveni, croati e “rimasti” (oltre che di Valdevit) smentirebbero la tesi della jacquerie. Ti chiederei innanzitutto di chiarire a quale periodo ti riferisci. Perché se si tratta del periodo subito seguente l’8 settembre non credo proprio possano smentire alcunché (ed è paragonabilissimo ai fatti del c.d. triangolo rosso), se invece si tratta del periodo seguente alla fine della guerra nessuno, nemmeno Miccoli, lo ha mai interpretato semplicemente ed unicamente come violenza spontanea di massa. Il fascismo non ebbe affatto grande e precoce fortuna fra gli italiani del confine orientale, tanto che buona parte della sua base di massa e corpo militante fu composto da “regnicoli” e militari. Se il fascismo da noi fu particolarmente forte e virulento lo fu anche l’antifascismo. Come dimostra la presenza superiore alla media di abitanti della Venezia Giulia tra i processati dal Tribunale Speciale (che non furono solo sloveni o croati), le dure battaglie che il fascismo dovette ingaggiare per imporsi (rivolta di S. Giacomo, repubblica di Albona) la forza di organizzazioni quali gli Arditi Rossi, la massiccia partecipazione di volontari triestini, goriziani e istriani alla guerra di Spagna dalla parte della Repubblica…..
      Non è per nulla “tautologico che dalle narrazioni degli istriani vengano espunte le differenze nazionali”. Forse può valere per gli esuli delle organizzazioni, ma sloveni e croati (o meglio, “gli slavi”) sono ben presenti nelle narrazioni raccolte dalla Nemec, e non solo come qualcosa di “altro”, ma anche come qualcosa di “se” (anche se in maniera molto cauta). Come ben sa chi fa storia orale le testimonianze vanno valutate anche in base a quando vengono rilasciate. Pretendere che un esule, che al momento di optare aveva dichiarato di essere “di lingua d’uso italiana” e che per questo aveva potuto contare su una serie di sostegni, mettesse a repentaglio tali aiuti dichiarando che si, sapeva il croato (o “lo slavo”) mi pare un po eccessivo.
      La democraticità del CLN è più che dubbia. O meglio, non dubito dell’antifascismo e della democraticità di molti dei militanti del CLN triestino, mentre non altrettanto si può dire di molti suoi esponenti di vertice. Tra questi Biagio Marin, che rappresentò il PLI nell’ultimo CLN triestino. Marin fu Segretario Politico del fascio di Grado dal 1923 al 1928, ma interessante è sopratutto quanto scrive dei nazisti nel suo diario durante gli anni di guerra: “Dio assista Hitler. Egli è il vero grande eroe di questa grande epoca. Eroe tragico, di dimensioni tali che i greci mai avrebbero potuto immaginare”; “Il bolscevismo che i tedeschi stanno spazzando a colpi di cannone, come tutti i prodotti del fanatismo intellettuale, era una triste cosa….. Il nazismo dei tedeschi è l’espressione profonda del genio di una razza in fiore, di una grande volontà costruttiva, sugosa, ricca, che si esprime…”. Per converso ecco cosa scrive di sloveni, slavi e proletari: “San Giusto occupato dalle orde barbariche! I nostri servi diventar i nostri padroni, e noi, senza Patria”; ”Ribrezzo fanno i popoli meschini, vendicativi, i megalomani, come i nostri vicini gli Jugoslavi”; “…Dicono, si, anche in questi giorni, e sopratutto gli operai: siamo italiani e non “s’ciavi”, ma non vogliamo più saperne dello stato italiano…” (4 maggio ’45); “…Oggi gli slavi nostri vicini, che per secoli e secoli hanno fornito alle nostre famiglie borghesi servi e coloni e che nel nostro dialetto chiamiamo – s’ciavi, cioè schiavi, sono in rivolta….” (10 febbraio ’47!). Se alle considerazioni di Marin aggiungiamo il tipo di argomentazione adottato dalla fazione politica che si definiva italiana fin dal suo nascere per legittimare la sua pretesa di essere l’unica titolata al potere – la discendenza da coloro che nel tempo erano stati i dominatori nell’area, cioè romani e veneziani, credo che per comprendere meglio i motivi dell’esodo (ma anche delle foibe) sarebbe molto utile adottare gli strumenti degli studi coloniali.
      Il CLN non ebbe “alcuni incontri” con i fascisti, ma ci fu ben di più. Fino all’ultimo il CLN fu in trattative con i fascisti per opporsi unitamente all’arrivo dell’esercito jugoslavo. E poi c’è, ad esempio, la incredibile vicenda del capitano Podestà, che viene tuttora annoverato tra i militanti dello stesso CLN (come pure tra quelli “deportati” dagli jugoslavi, anche se poi rilasciato), nonostante dopo essere stato catturato dall’Ispettorato speciale fascista (Banda Collotti) venne rilasciato dopo aver stretto un accordo in base al quale Collotti si impegnava a non arrestare i membri del CLN, mentre Podestà si impegnava a passargli informazioni sulla resistenza slovena (o meglio, comunista). A casa mia gente del genere viene considerata un traditore e una spia, ma nel CLN è evidentemente diverso.
      Fai anche delle affermazioni ben poco rigorose. Ad esempio l’eccidio di Porzus non è affatto “l’unico caso in Italia di scontro in armi fra partigiani comunisti (filojugoslavi) e partigiani non comunisti”. Era una cosa molto più frequente di quanto credi e non a senso unico, come dimostra il caso di Fontanelle di Conco (studiato da Ugo De Grandis, guarda caso non appartenente alle “meritorie istituzioni”) in cui furono i “badogliani” ad eliminare alcuni comunisti perché …. troppo attivi militarmente! (per altre vicende del genere nel Veneto vedi Egidio Ceccato, Patrioti contro partigiani). Gli jugoslavi poi con quella vicenda non c’entrano proprio nulla, ma si tratta di una storia tutta interna alle contraddizioni della resistenza e dell’antifascismo italiani, legata alle mene di Bonomi per arrivare all’unione delle forze della Osoppo e della X Mas in funzione antijugoslava (su questo leggiti il pezzo di Pupo – qualcosa di buono lo ha scritto pure lui – in “La crisi di Trieste. Maggio – giugno 1945”).
      Dire che “Il progetto rivoluzionario jugoslavo era dotato infatti di una forte impronta nazionale e nazionalista” senza dire che tale nazionalismo presupponeva l’uguaglianza di diritti di tutti i popoli e nazionalità della Jugoslavia in un ambito federale è quantomeno semplicistico e banalizzante, lo dica Pirjevec o Dio in persona. Quel “nazionalismo” rompeva lo schema della Jugoslavia monarchica dei “tre popoli che componevano una sola nazione”, lo “jugoslavismo integrale”, che colonizzava (ci provava) con gli sloveni della Venezia Giulia la Macedonia ed il Kosovo. Mai però la Jugoslavia ha basato la richiesta di annessione di Trieste e di altre parti della Venezia sul dato dell’appartenenza nazionale. Chi lo sostiene oggi sta cercando di piegare ad una lettura nazionale una vicenda che è stata ANCHE, ma non esclusivamente (e forse nemmeno principalmente) nazionale. Di fronte a questo c’è un altra realtà, che pare sfuggirti, quella del CLN di Trieste (e pure quella del successivo CLN dell’Istria) di cui non poteva far parte nessuno che non fosse italiano. Quindi, prima di avventurarsi in considerazioni sul carattere nazionalista del “progetto rivoluzionario jugoslavo” forse sarebbe bene avere presente alcune verità banali e scontate, ma che mai si menzionano.
      Che una spinta all’esodo da parte dell’Italia ci fu lo dicono le organizzazioni degli esuli, che si impegnarono a fondo per far andare via più gente possibile, slavo poi chiedersi, negli anni ’60, se fosse stata la scelta giusta. Il CLNI fu attivo solo nella zona B del TLT e si impegno perché la gente rimanesse – distribuendo sussidi e altro – fino al ’53, quando decise di sospendere la distribuzione dei sussidi ai filoitaliani per utilizzare il denaro per l’assistenza ai profughi. Non è questo di per se un modo per far sapere alla gente che se voleva ancora il sostegno economico era meglio che se ne andasse? Quanto alle collusioni con il fascismo forse sarebbe bene tu dessi una occhiata all’organo del CLNI, “Il grido dell’Istria”, che forse non era scritto da fascisti, ma che per i contenuti dai fascisti aveva ben poco da imparare.
      Purtroppo rispetto alla Risiera fai uno scivolone degno di un …. negazionista, di quelli veri. Se in effetti la denominazione ufficiale della Risiera fu quella di Campo di Polizia, ciò non toglie che la Risiera fu anche un campo di sterminio. Il forno crematorio altrimenti a che serviva, a fare le pizze? D’altra parte non credo che Auscwitz o Treblinka fossero ufficialmente definiti come Campi di Sterminio, molto più probabilmente venivano definiti Campi di concentramento, ma nonostante ciò furono di fatto dei campi di sterminio (anche se non tutti i prigionieri che vi furono rinchiusi vennero uccisi). Tienine conto se non vuoi ritrovarti in compagnia di Rustia, Fabbri, Mattogno e altri simpaticoni del genere.
      Consentimi un certo scetticismo verso il libro sull’UZC, motivato dai precedenti. Visto ad esempio il caso del “progetto di ricerca” guidato da Pupo sull’archivio dell’Opera profughi giuliani e dalmati, in particolare sui moduli del censimento dei profughi degli anni ’50. Un progetto durato per anni, con ricercatori che hanno avuto l’accesso in via esclusiva ai moduli originali del censimento (a me è stato negato per due volte l’accesso a tale archivio, anche se avevo specificato che i moduli del censimento non mi interessavano) e che ha prodotto …. il nulla. Perché su queste vicende si vuole che non ci sia ricerca per fare in modo da poter raccontare quello che è diventata la “verità di stato” – il genocidio, “uccisi solo perché italiani” ……
      Mi resta un sospetto. Che il tuo intervento sia stato motivato proprio dal fatto che Giap, che dici avere un notevole seguito, si è impegnato nel smascherare le falsità che vengono raccontate ed il perché viene fatto. Perché questo fa Giap, non fa storiografia ne pretende di farla (che forse magari la farebbe meglio di altri). Imputargli poi la responsabilità di “fare opinione” di fronte allo schieramento di TV, siti, blog, stampa, cinema, teatro …. che di opinione ne fanno molta di più, mi pare sinceramente ipocrita. E’ come prendersela con un tizio aggredito da 50 persone perché è riuscito a spaccare il naso ad uno degli aggressori! E poi vanti il tuo impegno nel combattere le banalizzazioni e le strumentalizzazioni, il tuo viscerale antifascismo, ma non ho notato da parte tua nemmeno una banale firma su un qualche comunicato riguardo, ad esempio, alla vera e propria aggressione squadrista subita dalla Kersevan per impedirle di parlare all’Università di Verona non di foibe, ma dell’occupazione italiana della Jugoslavia! Da parte di un antifascista viscerale la cosa mi pare un po deludente.
      Ecco, se il tuo impegno è sincero credo che il modo migliore di esplicarlo sarebbe quello di organizzare quanto ti ha già chiesto Piero.

      • Ancora un paio di cose
        Parli del progetto di snazionalizzazione del fascismo come di una pulizia etnica fallita. Fallita? Nel 1910 il censimento austriaco rilevava quasi 60.000 sloveni a Trieste (di lingua d’uso slovena, che non è un dettaglio), oggi non credo si arrivi ai 15.000. Se ti occupi di UZC saprai nei suoi documenti si parla apertamente di “bonifica nazionale”, quindi il progetto di omologazione nazionale è proseguito anche in epoca repubblicana, con probabilmente molto più successo dei quanto avvenuto in epoca fascista.
        la tua non conoscenza dello sloveno (e/o del croato) ti rende dipendente dalle letture e dalle vere e proprie manipolazioni che della documentazione della resistenza slovena danno Pupo e simili, che ripropongono sempre gli stessi passi. Solo che quei testi dicono in realtà altro da quanto racconta Pupo. Un piccolo esempio:
        VERBALE DELLA RIUNIONE DEL CC PCS DEL 28.8.1944
        Citazione in Pupo, Raoul e Spazzali, Roberto, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 69.
        «Occupare per primi. Tenere preparato tutto l’apparato! Dappertutto, il più possibile, bandiere slovene e jugoslave. A eccezione di Trieste, non permettere in nessun altro posto manifestazioni italiane! Soltanto dove rappresentano qualcosa come gruppo antifascista […] Rinforzare l’OZNA. Una formazione forte. Dalle formazioni militari regolari in OZNA – che anche opera come polizia! Provvedere ad assumere il potere subito, subito assicurare l’ordine, liquidare subito la Bela Garda! Provvedere già adesso tutto per le città! Lubiana, Gorizia, Trieste, Klagenfurt. […] Gruppi dell’OZNA a Trieste, Gorizia – più forti possibile. Pulire in dimensione limitata, che non risulti un uccidersi reciproco».

        Traduzione della parte del verbale contenente le citazioni:
        “Krištof (Kardelj)….
        Basilare:
        1. rafforzare i Comitati popolare di Liberazione (CPL) e collegare le masse ad essi
        questo è un plebiscito
        e se ci sarà in qualsiasi modo un altro potere = nuova schiavitù per la Primorska
        2. Governo militare:
        essere disciplinati verso di lei nell’amministrazione interna – ma manifestazioni continue per la Jugoslavia!
        Amministrazione straordinaria solo per un certo periodo!
        3. Mettere in guardia in caso di disarmo – non farsi disarmare da nessuno.
        Distaccamenti – inserirli nelle unità regolari
        Insistere con i Comandi città
        Non ritirare le unità troppo presto!
        Cercare di farsi valere nelle azioni contro i tedeschi!
        Occupare per primi
        avere pronto tutto l’apparato!
        4. Bandiere slovene e jugoslave quanto più possibile dappertutto
        Tranne a Trieste non lasciare da nessuna parte manifestazioni italiane!
        Solo dove rappresentano qualcosa come gruppo antifascista –
        ma stare attenti che non si arrivi in nessun modo a incidenti tra noi e gli italiani.
        In Italia il movimento di liberazione sarà distrutto!….
        ….
        Rafforzare la polizia – subito! Ogni CPL deve avere la protezione! Insegne!
        Rafforzare l’OZNA! Una formazione forte! Dalle unità regolari nell’OZNA – che può anche come polizia!
        Assicurarsi di assumere subito il potere, instaurare rapidamente l’ordine, liquidare la Bela garda subito!
        Prevedere già ora tutto per le città! Lubiana! Gorizia, Trieste, Klagenfurt – li reazionari tedeschi!
        Catturare i belogardisti!
        Statuto per Trieste!
        Progetto militare! ….
        ….
        Krištof:
        Gruppi dell’OZNA a Trieste, Gorizia – più forti possibile.
        Pulizia in misura limitata che non risulti come un massacrarsi a vicenda – bisogna proprio in questi settori – bisogna sulla linea della legalità, ma sopratutto i dirigenti preminenti importati (Novak, Jevdijevič). Per noi favorevole che scappino. Puntuale rassegna di ciò che c’è a Trieste.
        Ciò che Mussolini ha fatto immigrare cacciare – e questo senza discussioni già i primi giorni!
        Sarebbe imbarazzante organizzare a Trieste dopo la Liberazione grandi processi contro italiani.
        Ma state attenti riguardo al disarmo degli italiani che sono tra i partigiani. Bisogna seguire la linea della pulizia delle file italiane, in ciò si può disarmare gran parte della divisione Osoppo in Italia!
        Tutte le unità sul territorio del 9° Korpus sotto il comando del 9° Korpus, tutti che non vogliono da disarmare.
        Non ha senso ufficiali di collegamento – gli italiani si rivolgano al Quartier generale supremo !….! “
        Non ti pare diverso il senso complessivo, e anche molto più interessante?

      • Sapevo della situazione drammatica della Biblioteca slovena e mi dispiace che tu abbia perso il lavoro. Ricordo ancora – tu forse no perché ero proprio un pischello – quando abbiamo invitato il portuale di Liverpool (come diavolo si chiamava?) a parlare al Teatro dei Fabbri. Saranno stati quindici e più anni orsono.

        Quindi stai dicendo che le tue posizioni storiografiche/politiche sono sgradite anche in ambiente istituzionale sloveno?

        Secondo me esasperi troppo il collegamento fra il clima culturale di distensione e il Giorno del ricordo. Senza dubbio da lì parte il percorso che conduce alla sua istituzione, ma io ci vedo anche una parziale eterogenesi dei fini (non dei Fini). Se fossi stato il segretario del Pci degli anni Ottanta ci sarei andato pure io in visita alla foiba di Basovizza, perché la politica è fatta anche di gesti simbolici e Trieste ha senza alcun dubbio bisogno di superare quella frattura. Che non vuol dire né comporla in un’improbabile storia condivisa e tanto meno cancellare le memorie minoritarie. Ma non vedo perché questi atti distensivi debbano connettersi in un rapporto causa-effetto con le strumentalizzazioni successive degli amministratori delegati del 10 febbraio. Quanto all’incontro Violante-Fini ebbi anch’io grandissime perplessità.

        Il resto delle osservazioni devi ovviamente rivolgerle ad altri, dato che non sono io l’autore dei testi che citi. Non vedo però cosa ci sia di male a portare certi temi alla ribalta, se ciò non ne oscura altri, cosa che all’interno dell’Irsml non mi pare davvero che sia avvenuta. Ecco la citazione intera, così capiamo meglio:

        «Dopo prolungati botta e risposta sulla stampa locale, Giorgio Rustia, segretario dell’Associazione famiglie e congiunti deportati italiani in Jugoslavia, ha pubblicato il suo corposo [che non è un complimento ma l’indicazione di una dimensione] Contro Operazione foibe a Trieste, nel quale ha sottoposto a minuzioso esame [se è minuzioso, è minuzioso] il lavoro della Cernigoi, rilevando non poche omissioni, imprecisioni e interpretazioni capziose. Al di là delle contestazioni puntuali [che qui non è un aggettivo caldo], per il quale non si può che rimandare al libro e all’ampia documentazione prodotta, dell’opera di Rustia meritano qui rilevare il tono requisitorio e la vis polemica nei confronti del mondo accademico e, più in generale, della ricerca storica. È questa la testimonianza della frattura che nel corso del cinquantennio si è aperta fra l’orizzonte della memoria, elaborata e custodita in circuiti speciali, come quelli dei parenti delle vittime, e quello della ricerca, che ha seguito vie in parte diverse. […] Rustia si spinge ancora più in là, accumunando tutti gli storici e i politici antifascisti in una voluta congiura del silenzio sulle foibe».

        Così il senso mi pare più ampio, anche se non nego che – io autore di quelle pagine – non mi sarei profuso in una bibliografia ragionata del tema e, se l’avessi fatto, avrei riservato a Rustia qualche commento un tantino più sferzante. E non avrei usato il termine «negazionisti». Non ne ho mai parlato agli autori, ma non scommetto che lo riutilizzerebbero.

        Sulle considerazioni sul 10 febbraio ho già detto e quindi rimando più in alto, ammesso che a seguire questo dibattito ci sia rimasto qualcuno…

        Sul nesso storia e impegno politico/civile, è come dici tu. Siamo tutti Marc Bloch. Ma credo che la generazione di storici cui appartengo – quella dei trentenni – abbia un approccio diverso nel mettere in circuito mestiere e convinzioni personali. E io non posso che parlare a nome di quella generazione. Gli storici cinquanta-sessantenni sono il frutto culturale di una temperie che la mia generazione ha sfiorato da giovanissima e hanno cominciato a fare storia in un contesto diverso. Credo in tutta onestà che sia così e vale d’altronde anche per gli storici della politica che hanno studiato e studiano faccende italiane: oggi non è più detto che chi studia la Dc sia un democristiano e che chi studia il Pci sia un comunista. C’è un forte rimescolamento e, aggiungo, per fortuna.

        Sul resto è difficile confrontarsi. Vedi una cappa di omologazione eccessiva, di cui riconosco anche più di un elemento ma che tendi a mio avviso a portare a sistema. Tanto più se mi citi la rete dell’Insmli, dove convivono sensibilità anche molto diverse. Quanto dici sull’Irsml invece è un po’ offensivo: pensare che il lavoro che vi si svolge punti alla costruzione di un nuovo sentire nazionalista è insussistente. Era questo che intendevi? E inoltre devo dire più in generale che fatico a discernere un esteso processo di rinazionalizzazione delle masse, che anzi del senso nazionale hanno smarrito buona parte degli elementi e che forse oggi possono essere mobilitate sulla xenofobia – anche per merito della crisi economica – ma non credo più sulla nazione. Non direi che lo faccia la Lega di Salvini, non direi che lo faccia davvero Le Pen in Francia, non so quanto peso abbiano le posizioni di Forza Nuova e Casa Pound. Dov’è questo partito della nazione in Italia e chi sono i suoi vertici?

        Io leggo le questioni del confine in termini di identità, culture politiche, uso della violenza e un po’ di altre cose. Le appartenenze sociali sono ovviamente fondamentali nel ragionamento, ma le classi a mio avviso non possono essere lo strumento privilegiato. Così come città/campagna sono elementi radicati nelle mentalità che studio e non strumenti che uso oggi: ma non si può negare che quel binomio sia stato iperincisivo negli eventi otto-novecenteschi dell’area. Il perché avere un approccio diverso mi faccia essere un complice del diecifebbraismo francamente mi sfugge.

        Dopodiché fai a pezzi un po’ troppe cose, sempre secondo me. La Periferia insicura di Valdevit è per me invece una chiave di lettura molto importante per capire certi meccanismi e soprattutto per spiegare il dopo Osimo, che credo sia la domanda che in fondo abbia mosso l’autore. Poi vedo che sferzi su molti senza citare invece nessuno di buono e vedo che pure sulla Commissione ti distingui. Non ho detto di fare riferimento a lavori iper recenti, perché credo che solo Anna Millo e Piero Purini siano usciti negli ultimi anni con contributi di ricerca e non di sintesi, com’è ad esempio Trieste 45 di Pupo. Ma sto andando rapidamente a memoria e correggimi se sbaglio. D’altronde, si è in effetti spenta la carica di ricerca sull’area (e io pure a breve intendo cambiare focus): da una parte perché sono finiti i soldi e i ricercatori sono sempre meno, dall’altra perché si sta esaurendo l’abitudine degli storici locali a guardarsi l’ombelico. Il mondo è ampio e solo a Trieste esiste questa nevrosi di intere generazioni di storici che si sono dedicate soltanto a queste terre. Quando varchi il confine di Duino e ti confronti con la storiografia nazionale e internazionale, questo è davvero un bel problema e il consiglio è di fare anche altro, si condivida o meno gli approcci di maggiore astrazione come la storia globale e il lungo periodo.

        Poni troppe questioni, io da giorni passo ore a rispondere su Giap ed è difficile ribattere ad ogni singolo punto, ma è evidente che non ci sia molto del panorama storiografico ad andarti a genio. Ed inoltre diverse cose che ho detto, nella velocità di scritti praticamente non riletti, le pieghi un po’ a tuo uso e consumo: quando parlo di italiani di confine non sto ad esempio distinguendo fra regnicoli e non, ma parlo per rapidità (e con un po’ di incuria) di chi era italiano al confine in quel dato momento.

        Ti sarei grato se volessi darmi un’indicazione bibliografica delle citazioni di Biagio Marin. Non le conoscevo e non ho mica problemi ad ammetterlo. Se mi dici dove, vado a leggere con grande interesse. Le prime sono effettivamente notevoli e vorrei contestualizzarle meglio, mentre le seconde mi sembrano più che altro l’ovvio ritratto di un intellettuale liberal-nazionale che descrive dal suo punto di vista quanto stava accadendo. Cos’avrebbe dovuto dire, che gli piaceva l’idea delle fabbriche collettivizzate? Faccio tesoro anche delle indicazioni su altri eccidi fra partigiani. E lo so anch’io che lo scontro fu tra partigiani italiani, ma certo non posso astrarre questa considerazione dagli assetti geopolitici internazionali in via di formazione.

        L’approccio coloniale mi pare fuorviante. Se ho capito bene come lo intendi, presupporrebbe un’Istria sloveno-croata poi italianizzata e non è proprio così.

        Non mi pare di aver negato l’impasto nazionale e palingenetico della rivoluzione jugoslava. E certo quella spinta nazionale era diversa da quella monarchica. E non mi sfugge nemmeno la natura nazionale del Cln. Accadeva lo stesso nelle resistenze al confine settentrionale. Dire che la resistenza jugoslava ebbe una forte connotazione nazionale non nega – chissà perché me lo attribuisci – il carattere nazionale di quella italiana, proprio a dimostrazione che l’elemento nazionale non può essere rimosso dall’analisi, ma al limite meglio/diversamente articolato.

        Chiaro che nel 1953 finiscono i fondi italiani per gli italiani della Zona B. Dal governo Pella in poi, per ragioni che qui è lungo spiegare, viene meno la fermezza di De Gasperi sulla Tripartita. Ormai la battaglia è persa per l’Italia, si tema la jugoslavizzazione di Trieste (pensa che paranoie si facevano), si vuole rimuovere uno scoglio nella conduzione della politica estera in Adriatico e nelle relazioni con gli alleati. Che avrebbero dovuto fare a Roma se non pensare a come organizzare l’assistenza ai profughi?

        Il Grido dell’Istria era revanscista e antislavo. Lo era tutto il fronte italiano nell’immediato dopoguerra, ma il fascismo è un’altra faccenda. Ci sono diverse famiglie identitarie dell’italianità di frontiera che si intrecciano nel dopoguerra e si omologano davanti all’emergenza.

        Sulla Risiera forse è a te che sfugge qualcosa, perdonami. «Campi di sterminio» vengono considerati da molti storici soltanto quelli che prevedevano come unica funzione l’eliminazione fisica dei malacapitati ospiti: scendi dal treno e vai in camera a gas dopo un breve soggiorno all’inferno. La Risiera era un inferno, ma un inferno diverso: un luogo da cui partivano rastrellamenti antipartigiani, dove gli antifascisti (in gran parte sloveni) erano detenuti e ammazzati, dove gli ebrei erano concentrati e smistati. Il funzionamento non è insomma quello di Treblinka, per quanto queste distinzioni tecniche possano apparire del tutto superflue ai non specialisti. Ma queste distinzioni non tolgono che si stesse nell’universo concentrazionario nazista, in forme diverse e con molte continuità, come dimostra la presenza di Globocnik e di una serie di gentiluomini ucraini provenienti proprio dai piani di sterminio.

        L’archivio dell’Uzc è una miniera. E fossi in te ci farei proprio una visita. Altroché.

        Non ho capito di che mi accusi col tuo sospetto. Davvero. Perché avrei scritto su Giap? Per sfruttarne la visibilità a mio vantaggio? Per colpire una voce dissidente rispetto alla vulgata dominante, di cui apparentemente io sarei lo sbirro? Davvero no. Da questa discussione sto imparando molto e, credici o meno, sto assorbendo anche punti di vista che qualche riflessione me l’hanno aperta. La mia è soltanto voglia di confronto e un po’ di gusto per la polemica.

        Non mi pare tu mi abbia sottoposto alcuna raccolta firme… Non avrei problemi a firmare per protestare contro aggressioni fisiche ad una studiosa. Anche domani stesso.

        Non parlo di pulizia etnica fallita perché non parlo di pulizia etnica. Il fascismo ha pesantemente modificato gli equilibri etnici del territorio, così come in Alto Adige con le opzioni e l’immigrazione, ma il gruppo sloveno non è stato eliminato integralmente. Mica sto dicendo che il fascismo è buono. Sto dicendo che non ci sono riusciti e sto dicendo che in realtà c’era anche la pretesa di cacciare la classe dirigente (a partire dai preti) e i politicamente attivi, assimilando poi gli incolti, secondo quel mito – pure questo propagatosi dal primo al secondo dopoguerra – del mite contadino slavo aizzato da elementi esterni e plagiato nell’odio anti italiano. Ovviamente baggianate, se si pensa a quanto fu radicata la resistenza slovena nel Litorale rispetto alla situazione ad esempio di Lubiana.

        Non nego infine ci siano state delle continuità nel dopoguerra e spero che qualcosa saprò far emergere nei miei prossimi lavori, in cui non ci sono riserve a riconoscere la fondatezza dei tuoi studi sugli insediamenti istriani e a ricostruire la volontà di bloccare un’assai presunta infiltrazione silenziosa degli sloveni nel corridoio di Monfalcone perfino valutando se garantire mutui agevolati agli operai di Monfalcone dopo il 1948. Della serie meglio i cominformisti degli sloveni. Se non è qui il peso della nazione, dimmi tu dov’è.

        • Solo un piccolo esempio della “minuziosità” di Rustia. A pag. 65 di “Controoperazione foibe” fa tutta una pappardella per dire che Lipa non si trova tra Trieste e Fiume, portando come pezza d’appoggio Ferenc, Fogar e altri che la situano tra Fiume e Lubiana. Buh, bastava guardare su google maps per rendersi conto che Lipa si trova esattamente nel punto in cui la strada che proviene da Fiume si biforca: a destra si va a Lubiana, a sinistra si va a Trieste.

        • Marin: B. Marin, La pace lontana. Diari 1941 – 1950, LEG, Gorizia, 2005.
          Si, ricordo Billy, e ricordo anche che i bordighisti (ai quali presumo appartenevi) sono venuti a fare la lezione ai portuali di Liverpool su quanto fossero riformisti (in fondo coglioni) e cose del genere. Noto una certa somiglianza con il tuo atteggiarti “da storico”.
          Ci tengo a precisare che certamente appartengo a una generazione, faccio lo storico (come pure il disoccupato, il raccoglitore di funghi, il pescatore – con scarso successo – gil giocatore di freccette, cucino, stiro, lavo e mi lavo, guido la macchina….) ma non appartengo a nessuna “generazione di storici”. Ci sono storici validi e altri che non lo sono, al di la di età, colore degli occhi, preferenze sessuali o altro. Rifiuto questo approccio da “casta di eletti” anche perché le cose migliori le scrivono coloro che non ne fanno parte, quelli fuori dall'”accademia”, quelli che non hanno dottorati da conquistare o carriere da difendere.
          Per il resto devo darti ragione: non ci fosse stato il gesto di Spetic & Cuperlo a Trieste avremmo continuato a spararci per le strade, dopo quel gesto invece siamo andati tutti quanti in osmizza con Menia e da allora è tutto un pappa e ciccia. Hai ragione, il PCI è stato preso da un impulso irrefrenabile di pietà nei confronti di poveri italiani uccisi in quanto tali (per colpa del PCI) e la voglia di un ceto politico di ritagliarsi uno spazi “nazionale” non c’entra nulla. Hai ragione, quell’atto non ha affatto legittimato una balla storica colossale come il Moumento nazionale della foiba di Basovizza dando il via a una serie di vere e proprie mostruosità. Ha semplicemente riconosciuto una verità storica. Anzi, è stato un giusto riconoscimento del fatto che il potere va lasciato a chi sa gestirlo, che quando il popolino pretende di provare a vivere diversamente tutto si risolve in un crimine.
          Come darti torto sulla “frattura” inspiegabile in una società altrimenti armonica e felice causata da quei barbari di proletari, buona parte per di più s’ciavi, come giustamente li definiva Marin. Non posso che assentire sul fatto che l’obbligo di esporre la bandiera sugli uffici pubblici, il tricolore regalato a ogni copia di sposi, le fiction su la Ferida ed il suo mauco, i film sui poveri fascisti vittime dei feroci comunisti, la celebrazione degli “eroi” di Nassirya e tante altre cose sono solo fatti accidentali (peraltro dovuti) e in nessun caso strumenti per diffondere un comune sentire nazionalista negli italiani .
          Mi scuso per quanto detto sugli istituti ed i personaggi ad essi legati. Anzi, devo dire che ho colpevolmente dimenticato che una folta massa di impiegati e ricercatori degli stessi, capitanati da un baffuto Spazzali, si sono duramente scontrati con le forze dell’ordine per impedire l’innaugurazione del Monumento nazionale alla foiba di Basovizza. Come ho dimenticato di menzionare Pupo che impavido – DA SOLO! – cercava di impedire alla RAI di Roma la messa in onda di Il cuore nel pozzo. Cosa per la quale è stato condannato a diversi mesi di carcere (seppure con la condizionale).
          Hai assolutamente ragione sugli studi coloniali, ho toppato: infatti il ceto dirigente italiano in Istria non ha mai avuto atteggamenti coloniali, ne si è mai richiamato per legittimarsi alla discendenza da Roma e Venezia (che non erano peraltro affatto delle potenze coloniali).
          In effetti siamo chiusi nei nostri ristretti orizzonti locali, ed è vero che foibe ed esodo non hanno oggi una rilevanza a livello nazionale. Ma se trovi uno spicchio di tempo potresti cercare di aiutarci ad uscirne, a trasmetterci le tue ampie visioni del mondo.
          Hai assolutamente ragione sui campi nazisti – solo quelli in cui TUTTI i prigionieri venivano immediatamente uccisi vanno considerati campi di sterminio, gli altri erano Campi di Polizia, Campi dei Vigili del Fuoco (per questo in Risiera c’era il forno, per addestrare i Vigili del Fuoco), Campi dei Vigili Urbani (quando ancora non erano Polizia Locale) e pure Campi della Guardia di Finanza (che non so come fosse in tedesco).
          In effetti Pupo nel suo libro sputtana brutalmente il povero Rustia e sostiene a spada tratta le tesi della Cernigoi (che si è trovata in notevole imbarazzo per l’entusiasmo con cui l’ha fatto).
          Ho sbagliato anche sul condizionamento della ricerca su questi temi. Anzi, a mia parziale discolpa vorrei aggiungere che l’IRSML non c’entra nulla con il fatto che la raccolta di saggi, il libricino didattico bilingue ed il video prodotti dalla ricerca “Memorie diverse” siano stati “blindati” nelle cantine della Regione FVG – è semplicemente che hanno perso le chiavi!
          E devo infine scusarmi di aver pensato che il tuo intervento era in qualche modo determinato dal fastidio per il fatto che qualcuno contestasse la verità ufficiale e le menzogne (assolutamente inesistenti entrambi) propagate nel giorno del ricordo senza tener conto di quanto tu e altri luminari avevate concluso. Spero potrai perdonarmi.
          Va bene così?
          Io sinceramente non ho proprio voglia di dotte e vuote disquisizioni e il parlare di identità (nel 2015!!!!) e simili mi fa venire l’orticaria. Per cui la finisco qui.

          • Un minuto fa Wu Ming dice che sono uno storico, ora tu dici che mi atteggio. Io invece mi considero solo un tizio che fa ricerca storica e prova a camparci, con alterne fortune. Un ricercatore. E pure piuttosto modesto, rispetto ai capoccioni che vedo in giro.

            Negare le appartenenze generazionali mi pare un po’ una forzatura, ma come vuoi.

            Sul resto abbiamo posizioni davvero troppo distanti e alcune cose invece me le attribuisci senza che le abbia dette. «Quando il popolino pretende di provare a vivere diversamente tutto si risolve in un crimine». Credo che questo significhi: io sono un comunista, tendenzialmente favorevole dal punto di vista ideologico al processo rivoluzionario jugoslavo. Se è così, è principalmente questo che ci divide: io in quegli anni avrei avuto probabilmente altre idee per la ricostruzione politica del «nuovo ordine».

            Stiro e lavo anch’io, ma non so pescare: credo però che di base abbiamo caratteri molto diversi e questo incide oggi non poco sul nostro impegno pubblico e sul nostro approccio alla storia. La tua lettura tutta politica è assolutamente lecita, ma non la condivido e mi pare peraltro che condizioni una parte delle tue ricostruzioni. Possiamo andare avanti sei anni a scornarci: non servirebbe e quindi evitiamo di farci il fegato grosso.

            Leggerò comunque Marin con grande interesse e ti ringrazio per avermi insegnato qualcosa.

  15. Segnalo un’altra foto, che sul sito di viterbotv.it illustrava la commemorazione (2008) delle vittime delle foibe del sindaco di Viterbo Giancarlo Gabbianelli:
    http://web.archive.org/web/20150214174639/http://www.viterbotv.eu/news/dettaglio.asp?id=759
    La foto che illustra l’articolo è però quella di un sopravvissuto dal lager fascista di Arbe.

  16. a proposito del reato di #negazionismo qui ho provato ad effettuare analisi dopo aver letto atti e dibattito senato ed alcuni intenti e riflessi pericolosi sulla storia del #confineorientale, per come funziona il sistema attuale qualche preoccupazione a dir il vero la nutro e non può essere ignorata. http://xcolpevolex.blogspot.it/2015/02/il-reato-di-negazionsimo-e-le-questioni.html

    • Una curiosità a margine, scusa: nel testo di legge che riporti, alla voce “…o propaganda idee, distribuisce, divulga o pubblicizza materiale o informazioni,con qualsiasi mezzo, anche telematico, fondato sulla superiorità o sull’odio razziale, etnico o religioso…” l’odio omo o transfobo NON è considerato, giusto?

    • A Ma’, se vedemo in galera. Arance o mandarini?
      Al di la degli scherzi sono proprio curioso di vedere che ne esce. Ma non nutro troppe illusioni, visto l’andazzo, la pervicacia con cui perseguono questa legge e i ferrei legami tra sionisti e organizzazioni degli esuli, anche le più destre.

  17. Dott. D’amelio, le dò del lei perché è quello che farei se ci incontrassimo sul lavoro, visto che sono impiegato un museo come addetto alla progettazione di attività didattiche. Non ho le competenze riguardo la storia del confine orientale per esprimermi nel merito delle sue puntualizzazioni ai 25 punti di Lorenzo Filipaz, ma ci terrei a esporle il mio punto di vista sul «Giorno del ricordo» in quanto tale.
    Premetto che non si può certo dire che io sia un filo-titoista, se va a vedere la raccolta di materiali didattici inerenti il «Giorno del ricordo» che assieme ad altri ho pubblicato sul blog «Avanguardie della storia» ci troverà la relazione del 2000 della commissione italo-slovena (se non ricordo male fu proprio Filipaz a segnalarmi il link in cui potevo trovarla) nonché del materiale prodotto dal IRSML del Friuli Venezia Giulia e curato da Roul Pupo. Personalmente non ho mai pensato che le Foibe fossero il risultato di una sorta di jacquerie e ho pubblicato in evidenza su «Avanguardie della storia» sia il brano della relazione del 2000 che parla delle violenze del Regio Esercito che quello in cui si afferma la natura di “violenza di stato” di quanto fatto dall’esercito popolare e dall’OZNA.
    Detto questo però credo non si possa parlare di queste vicende astraendoci dal contesto politico e culturale in cui ci troviamo. È proprio questo contesto così invasivo secondo me ad impedirci di svolgere il nostro lavoro di ricercatori o di divulgatori con la serenità che sarebbe necessaria.Non possiamo ignorare il conflitto che ci circonda.
    Lei parlando dell’istituzione del «Giorno del ricordo» ha scritto: «la cosa ha riportato – volente o nolente – alla ribalta le vicende del confine orientale e dato modo a noi (che di destra proprio non siamo, anzi) di lanciarci su progetti di ricerca, tesi di dottorato, convegni, conferenze, scrittura di libri».
    Bene, mi permetta di raccontarle come nelle scuole italiane si celebra solitamente il «Giorno del ricordo», magari lo sa meglio di me, ma direi che è il caso di parlarne: i ragazzi vengono radunati per l’evento o dentro la scuola o in un cinema, auditorium o centro convegni. Nel migliore dei casi prima prende la parola uno storico che contestualizza, spiega, illustra i fatti (penso sinceramente che questo avvenga solitamente con esattezza e onestà intellettuale), poi prende la parola un esule o viene fatto vedere un filmato che contiene le testimonianze degli esuli.
    Provi ad immaginare cosa “rimane” ai ragazzi di tutto ciò: la narrazione delle vicende del confine orientale è “difficile” da comprendere, rischia di annoiare ed è semplificata al massimo per ovvi motivi di tempo. Invece la testimonianza di chi parla in prima persona è vivida, impattante, risveglia l’attenzione anche di chi sonnecchiava o stava attaccato al cellulare. Il risultato lo può immaginare anche lei: i morti “slavi” sono ombre vaghe, contabilità, numeri confusi; quelli “italiani” invece sono persone a cui si dà un nome, una storia, dei sentimenti.
    E badi bene che questo che ho descritto è quanto di meglio accade nelle scuole italiane in occasione del «Giorno del ricordo», a volte non vi è nessuno storico a contestualizzare, parla solo un esule, o addirittura un rappresentante delle associazioni di esuli. Oppure si fa vedere «Magazzino 18» di Cristicchi, sino ad arrivare al caso peggiore di cui sono venuto a conoscenza, questo: http://web.educazione.sm/scuola/servizi/CD_virtuali/lavori_scuole/Foibe.pdf
    Questo invece è un sito che raccoglie materiali didattici sulle foibe, giudichi lei:
    http://guamodi.blogspot.it/2014/02/giorno-del-ricordo-materiali-didattici.html
    Certo si potrebbe proiettare nelle scuole il 10 febbraio lo splendido “Meja- guerre di confine” di Rai Storia, ma chi lo conosce? Quante copie ne esistono nelle scuole italiane? Temo nessuna (ammesso che sia mai uscito in dvd). Certo sapendo che il documentario esiste si potrebbe vederlo sul sito di Rai Storia, ma credo sia impossibile farlo in classe dato lo stato delle le connessioni web scolastiche.
    Dunque come si fa a parlare di «Giorno del ricordo» serenamente, dimenticando questo contesto? Come si può ignorare che c’è una legge in Italia che imposta la ricorrenza come ricordo della “tragedia degli italiani”? Come si può far finta di niente dinnanzi ad un ministro dell’istruzione che manda alle autorità scolastiche circolari che invitano ad affrontare la storia del confine orientale con il “sostegno” delle associazioni degli esuli (di cui anche lei nel suo intervento qui ha denunciato la natura marcatamente ideologica)?
    è come se qui in Trentino fossimo tenuti a parlare di grande guerra con uno schutzen di fianco.
    Lei nega che vi siano stati condizionamenti sugli studiosi, ma i condizionamenti non si fanno sugli studiosi, a nessuno importa di cosa legge l’esigua minoranza degli italiani che apre un saggio di storia. No, i condizionamenti si fanno sul grande pubblico tramite la scuola e o la tv, e lì non serve condizionare gli studiosi, basta costruire intorno a loro un frame narrativo che di fatto cancelli l’impatto di quanto affermano o scrivono. Torno all’esempio scolastico di prima. Se lei il 10 febbraio va a parlare in una scuola è assai probabile che le mettano di fianco un esule. Secondo lei chi sarà dei due quello che dirà le cose che resteranno più impresse ai ragazzi? Lei che dice «io ho studiato questo» o l’esule che dice «io ho vissuto questo». Come vede non è necessario condizionarla, non è lei che si vuole condizionare, sono i ragazzi. Stesso risultato, anche se meno impattante lo si ottiene con un documentario.L’unico modo per rompere il frame nazionalista sarebbe dare lo stesso peso alle testimonianze delle vittime slovene e croate che alle testimonianze delle vittime italiane.
    Lei parla di ricerche, convegni e libri, ma quanti hanno accesso a queste fonti? Alla maggioranza degli italiani la storia arriva tramite la scuola (nel migliore dei casi) o la televisione. Francamente credo che se non si agisce sul grande pubblico tutti gli studi, i convegni e i libri rimarranno inutili, non “faranno opinione” e lasceranno campo libero agli speculatori del ricordo, ai cantori del nazionalismo e ai seminatori d’odio.
    Qui si dibatte se sia aberrante o meno l’accostamento foibe-campi di sterminio, ma io temo che occorra spiegare alla maggioranza degli italiani che dentro le foibe non ci sono decine di migliaia di donne e bambini “uccisi perché italiani”. Quello che è passato al grande pubblico è semplicemente titini = nazisti.
    Anche lei ha scritto che è importante «volgarizzare le ricostruzioni più attente», ma come si può farlo se prima non si attacca il frame narrativo su cui si basa oggi «Giorno del ricordo»? Se non si sostituisce il «ricordo delle vittime italiane» con il ricordo di tutte le vittime del nazionalismo?
    Lei ha scritto «Si tratta invece di capire in quali forme sia meglio rappresentare quelle vicende e dare equilibrio alle memorie, affinché tutto questo arrivi al grande pubblico in modo onesto, venendo metabolizzato al di fuori di una polemica politica, che è ancora calda e che mi sembra sempre più assurda e fuori dal tempo». Ma io temo che in Italia la visione di una delle due parti impegnate nella polemica politica si sia fatta legge, divulgazione veicolata dalla scuola e di fatto pensiero unico. Di fronte a tutto questo non possiamo chiamarci fuori dalla polemica, per forza di cose, ci piaccia o meno, ci siamo dentro fino al collo.
    È per quello che sento di dire un profondo “grazie!” a Lorenzo Filipaz. Si, i suoi 25 punti presenteranno lacune, omissioni e manchevolezze, ma intanto è riuscito a stendere e a far conoscere ad un pubblico assai vasto un testo divulgativo fuori dal frame narrativo nazionalista a cui in occasione del «Giorno del ricordo» gli interventi sull’argomento vengono inseriti.
    Le faccio un esempio: io apprezzo moltissimo il programma “Il tempo e la storia”, ma guardiamo la puntata di quest’anno dedicata alle foibe che vede come ospite in studio Roul Pupo. Non discuto quanto affermato nel corso della puntata dal prof. Pupo, ma discuto il frame in cui il suo intervento è inserito.
    Ecco come viene presentata sul sito di Rai Storia la puntata:

    «Settembre 1943 – Febbraio 1947: il calvario degli italiani di Istria e Dalmazia, uccisi a migliaia dalle truppe comuniste di Tito nelle cavità carsiche: le foibe.
    Una tragedia ripercorsa, nel “Giorno del ricordo”, dal professor Raoul Pupo raccontando non solo la storia delle deportazioni e delle stragi, ma anche il dramma di centinaia di migliaia di esuli costretti a lasciare le terre dei propri padri. Comincia tutto all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre: la penisola istriana finisce sotto il controllo del Movimento di Liberazione jugoslavo guidato da Tito.
    In un mese le foibe si riempiono dei corpi di almeno 500 italiani. Diventeranno alcune migliaia al termine della seconda guerra mondiale, quando gli jugoslavi occupano la Venezia Giulia e cominciano le deportazioni. Nel 1947, poi, il Trattato di Pace di Parigi impone il passaggio di Zara, Fiume e di gran parte dell’Istria alla Jugoslavia. È l’inizio di un esodo doloroso per circa 300 mila italiani. Su tutto, però, cala il silenzio. Fino agli anni ’90, con la caduta del Muro di Berlino e la crisi jugoslava. E, nel 2004, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi firma il decreto che istituisce “Il giorno del ricordo”».
    Anche nelle parole del giornalista che introduce la puntata si parte dal 1943 e si presenta la “tragedia degli italiani”. Poi per carità, dopo le prime battute della puntata si iniziano a spiegare i fatti da fine XIX secolo in poi, ma intanto il frame narrativo è stato costruito, il messaggio forte è stato dato: «italiani vittime», ed è questo che rimane in testa alla gente il resto finiscono per essere solo divagazioni, particolari per addetti ai lavori.
    Possiamo anche cercare di introdurre elementi di complessità, di ricordare le violenze italiane, ma se non contestiamo alla radice il fatto che per legge commemoriamo solo e unicamente le vittime italiane ogni scritto, ricerca o discorso volto a ricostruire i fatti non supererà la soglia di attenzione del grande pubblico o sarà visto con fastidio. La gente tutt’al più dirà «mi dispiace tanto per i loro morti, ma mi spiace sempre di più per quelli di noi italiani».
    Per questo occorre spiegare che quel «noi italiani» è una convenzione, il frutto di una scelta «ideologica», proprio come se dicessimo «noi cattolici»,«noi comunisti» o «noi juventini». Troppo spesso dimentichiamo di spiegare un aspetto fondamentale: tutte le identità sono costruzioni.

    Ci sarà un motivo se la denuncia del 2012 da parte del IRSML sull’uso improprio della foto della famosa fucilazione è stata bellamente ignorata dai media e dall’opinione pubblica mentre la stessa denuncia su “Giap” mobilita persone in tutta Italia e “crea opinione”. Lo scontro è in atto e non ci si può tirarne fuori, piaccia o non piaccia, i messaggi arrivano se sono inseriti in un chiaro frame narrativo, finché rimaniamo nel frame «Giorno del ricordo» non sarà possibile trasmettere nessun contenuto serio.
    Ripeto bisogna considerare il contesto: è possibile che il servizio pubblico diffonda falsificazioni di documenti storici e debba essere “Giap” a vigilare sulla cosa? È possibile che solo per aver ospitato un dibattito sulle foibe “Giap” sia sotto attacco informatico?
    Piaccia o meno questo è il contesto e se vogliamo che la verità storica trovi finalmente pace prima dobbiamo “bonificare” la situazione di partenza impedendo che una memoria parziale ed ideologizzata (se non obiettivamente razzista: “gli slavi ci ammazzavano perché sono bestie”) si faccia “storia” per legge.
    Ovviamente quando dico che occorre delineare un chiaro frame narrativo non intendo certo dire che bisogna partorire visioni parziali o propagandistiche, per quanto mi riguarda «antifascismo» significa difendere la complessità del reale contro ogni semplificazione forzata.
    Per questo avanzo una proposta a lei, a Lorenzo Filipaz e a tutto il gruppo di lavoro «Nicoletta Bourbaki»: perché non proviamo tutti insieme (io ci metto la mia modesta esperienza didattica, voi i vostri studi e ricerche) a costruire dei materiali divulgativi/didattici da diffondere on line in occasione del prossimo «Giorno del ricordo? Immaginate di poter mettere finalmente a disposizione di insegnanti, studenti ed interessati un power point (o altro, ci penseremo…) che attraverso un’esposizione di documenti consenta di ripercorrere i passaggi chiave della storia del confine orientale. Personalmente partirei proprio dalla relazione del 2000 sulla storia delle relazioni italo-slovene e ragionerei su come “illustrarla” attraverso i documenti.
    L’IRSML mette già a disposizione materiali simili, ad esempio il power point: «Il confine più lungo. Affermazione e crisi dell’italianità adriatica», realizzato sulla base di una mostra realizzata a Rimini nel 2011: http://www.italia-resistenza.it/percorsi-tematici/frontiera-orientale/il-confine-piu-lungo/
    Ma come si intuisce già dal titolo è «l’italianità» ciò su cui si pone l’accento, ed inevitabilmente sono le sofferenze degli italiani quelle cui si dedica più spazio (anche se non mancano testimonianze che illustrano in modo “forte”, quelle di sloveni e croati).
    Provate ad immaginare un’esposizione simile in cui si dia lo stesso identico peso e spazio alle testimonianze delle vittime sia «italiane» che «slave», in cui si espongano le diverse complesse ragioni dell’esodo.
    Una cosa del genere diffusa sul web (se volete su «Avanguardie della storia», se no dove preferite) sarebbe secondo me uno strumento assai utile. Un insegnante potrebbe leggersi la relazione del 2000, vedersi MEJA e poi esporre il power point alla sua classe.
    Insomma proviamo a tenere insieme rottura del frame nazionalista e salvaguardia della complessità in un compromesso al rialzo che sia diretto a fornire materiali utili al grande pubblico.

    Infine chiudo ringraziando dal profondo i gestori di «Giap» che hanno lanciato l’appello a diffondere la foto della fucilazione con la corretta didascalia e tutti coloro che hanno risposto e si sono attivati. È stato bellissimo sentirsi parte di una collettività che ha preso la parola sul web, direi in modo efficace, per denunciare una falsificazione vergognosa in modo capillare. Spero si potranno condurre altre battaglie condivise di questo tipo. «Giap» si è confermato un presidio antifascista nel senso più attuale del termine: un posto dove persone molto diverse tra loro si ritrovano per difendere la complessità del reale dalle semplificazioni del potere.

  18. Mi chiami Diego, che va benissimo. I dottori stanno solo in ospedale.

    Concordo su buona parte del suo intervento e in particolare su come vengono gestite le cose nelle scuole, anche se devo dire che l’Irsml fa tanto nel territorio di Trieste e anche nel resto d’Italia, proprio in questi giorni, con estenuanti giri di conferenze. La ringrazio per averlo citato più volte come la fonte autorevole che credo sia su queste cose.

    È inutile dire che se facessi personalmente interventi a scuola farei parlare tutte le memorie. Ci sono i libri di Cattaruzza, D’Alessio, Kacin, Nemec, Purini e Verginella, tanto per fare qualche nome. Ricordo peraltro con divertimento una volta che io e un esule istriano, militante della sinistra Dc triestina e coinvolto nei gruppi paramilitari pre Gladio siamo stati accusati di comunismo da non so che ex colonnello dell’Anvgd durante un incontro con studenti padovani organizzato dalle Acli e dal Comune di Padova… So quindi quali umori prevalgano in questi contesti e so anche com’è gestita teatralmente una parte delle visite al Magazzino 18. E potrei citarle ancora gli orribili libretti della Lega nazionale, che sono stati distribuiti anni fa nelle scuole (mi pare fosse per l’anniversario del 1954) a tutti gli allievi: una sorta di kit del bravo patriota. E dirle infine che pure a me non piace che Cristicchi (il cui spettacolo comunque non mi è parso l’immonda latrina che si dipinge sempre qui) sia adesso visto come un para-storico e chiamato peraltro a inaugurare l’anno accademico a Fiume, come un tenitore di lectio magistralis.

    Mi occupo da qualche anno di idee di nazione e nazionalismi di confine e lo faccio con il retropensiero che tutti i nazionalismi siano esecrabili (tutti), tanto per giocare a carte scoperte. Parteciperei a qualsiasi comitato scientifico mi invitasse a ragionare su queste faccende e mi opporrei a ogni strumentalizzazioni delle memorie (al plurale). È vero però che pochi leggono i noiosi libri di storia e che la mia categoria fallisce clamorosamente sul piano della divulgazione. E questo aumenta le responsabilità di piattaforme come Giap, anche se il pubblico assai vasto che lei dice seguire questo blog (lo è sì, ma proporzionalmente a chi oggi fa funzionare le rotelle) mi ricorda un po’ le masse proletarie che credevo di avere alle spalle quando facevo propaganda rivoluzionaria fuori dalle fabbriche alle superiori, con gli operai che anche un po’ giustamente mandavano in mona me e il mio parka. Di acqua ne è passata.

    Quindi la responsabilità di Giap, dicevo. È vero che c’è un frame narrativo, ma perché sostituirlo con un altro frame, lacunoso e omissivo (a volte errato) su elementi cardinali che guidano l’analisi delle nostre vicende? A propaganda deve rispondere propaganda? Dopo settant’anni? Le domando: quello di Filipaz non le pare a sua volta un frame? E questo risponde indirettamente alla sua generosa proposta: crede davvero che Filipaz collaborerebbe con me e che io possa trovare un punto d’incontro davanti ad argomentazioni che sono spesso lontane da quanto io ritengo sia accaduto? Io al confronto ci sto, ma prima giuriamo tutti sulla bibbia della Commissione storica italo-slovena.

    «Insomma proviamo a tenere insieme rottura del frame nazionalista e salvaguardia della complessità in un compromesso al rialzo che sia diretto a fornire materiali utili al grande pubblico”. È questo anche il mio programma, ma eliminando la parte sul compromesso. Sono d’accordo che si debba fare una storia globale del confine e cerco non a caso di mantenere più relazioni possibili con il mondo sloveno, anche se mi vergogno sinceramente a non conoscerne la lingua. E penso anch’io che il Giorno del ricordo – così – faccia acqua da tutte le parti. Ma la conseguenza è capire come divulgare meglio, non contrapporre letture parziali per far da contrappeso alla vulgata dominante.

    Ps. I video introduttivi del Tempo e la storia erano più che discreti invece. La presentazione scritta che cita è senz’altro nel frame che dice lei, ma la trasmissione è stata la cosa più equilibrata passata in tv e sarebbe potuta durare anche una mezz’ora in più. Non ho percepito vittimismi né dal conduttore né da Pupo. E mi sono gustato la faccia del conduttore, che a un certo punto ha chiaramente perso il filo dell’intreccio giuliano, mentre lo storico raccontava. Il vero problema è che il tutto è stato un gran casino, checché se ne dica…

    • Credo che D’Amelio non abbia inteso nel modo corretto il concetto di “frame” a cui fa riferimento Tom Trento. Se ben interpreto il suo (di D’Amelio) commento, lui ritiene che la sostituzione di un frame con un altro voglia dire sostituire propaganda a propaganda. Ma il concetto di “frame” è tutto tranne che un sinonimo di propaganda: “frame” è un termine utilizzato dai linguisti cognitivi per indicare il contesto, la cornice culturale appunto, in cui si situa qualunque discorso umano. Secondo George Lakoff, che ha dedicato all’argomento diversi libri, tra cui i fondamentali “Don’t Think of an Elephant” –appena riedito- e “The Political Mind” (e che sicuramente gode di quella legittimazione accademica che mi pare D’Amelio abbia molto a cuore), non si dà discorso umano che non sia situato in un frame. E questo perché chi emette un messaggio è inevitabilmente portatore del suo universo culturale, valoriale, linguistico, ideologico: noi tutti parliamo all’interno di frame, che ne siamo consapevoli o meno.
      Lakoff ha indagato soprattutto la comunicazione politica americana, ma l’assunto di fondo della sua ricerca è che lo stesso metodo d’indagine valga per comprendere qualunque altra tipologia discorsiva. Per dire: io ho usato il framing per dimostrare qual è il messaggio sotteso alla pubblicità del Gratta e vinci… E mi pare che il metodo abbia dato buoni frutti.
      Dunque, quando Tom Trento invita a cambiare il frame di riferimento del discorso sul giorno del ricordo, usa il concetto di framing nel modo giusto: cioè invita a mutare l’orientamento di quel discorso. Mentre la pretesa che il discorso sia privo di frame farebbe impallidire un linguista serio, perché, ripeto, D’Amelio ha voluto far uso di una categoria concettuale della quale non conosce l’esatto significato.
      Certo che il testo di Filipaz sta in un frame: come in un frame stanno il discorso di D’Amelio e il mio.

      • Non sono per niente esperto di queste cose ma una cornice narrativa credo di capire cosa sia anche senza essermi addentrato in studi specifici. Potrei chiamarle retoriche pubbliche, milieu, contesto culturale, se preferisce. Così evitiamo pure di gettarci a corpo morto sugli anglismi, quando non ce n’è alcun bisogno… Non ho usato «frame» come «fotogramma» (mi par di capire fra le righe che lei pensi questo), ma come cornice appunto, perché ritengo che alla pratica discorsiva dominante nel Giorno del ricordo, Giap ne sostituisca un’altra – dominante in gruppi che sono però minoritari – altrettanto omissiva. Propaganda contro propaganda, in questo senso. Quindi, forse anche un po’ a mia insaputa, ho usato effettivamente «frame» secondo la sua definizione di «universo culturale, valoriale, linguistico, ideologico». Insomma, ho fatto davvero questa figuraccia che lei mi attribuisce su twitter? «D’Amelio ha voluto far uso di una categoria concettuale della quale non conosce l’esatto significato»: grazie della lezione frontale, questa sì molto accademica.

        • Tra le cose che lo studio dei frame ha permesso di scoprire a proposito di come funziona la mente umana c’è anche questa: limitarsi a negare la cornice concettuale di un discorso senza contrapporgliene una diversa equivale a riaffermarla o a rafforzarla. E infatti, absit iniuria, quando D’Amelio mi dice “io non ho usato il concetto di frame nel senso che mi si attribuisce”, dalle argomentazioni con cui si sostiene l’affermazione a me invece pare che il senso sia proprio quello che dicevo io. Il punto che facevo notare era infatti che la cornice del discorso è un fattore ineliminabile: e non perché sia una contrapposizione D’Amelio vs Giap a volerlo (per altro: val la pena di notare che Giap non è un’identità unitaria, ma raccoglie sensibilità e percorsi diversi, latori di altrettanti frame), ma perché è il linguaggio che funziona così. Decenni di ricerca neuroscientifica lo hanno provato. Non esiste discorso scevro di orientamento, su Giap come in qualunque altro luogo.
          A me sembra sia questo il punto che D’Amelio non vuole considerare in tutti i suoi commenti a questo post (ed è per questo che sono intervenuto: ora però eviterò di portare il tread fuori fuoco). Ma le neuroscienze non fanno altro che ribadire e dimostrare a livello fisico cose che stanno scritte in un qualunque manuale di logica.

          Ciò detto, se “frame” lo usa lui nella replica a Tom Trento allora va bene, se gli si fa notare che il termine ha un significato tecnico (quello in cui appunto l’ha usato Tom Trento, e che è correntemente impiegato dalla comunità scientifica –e non- italiana), allora diventa un inutile anglicismo…
          Ecco spiegata la ragione del mio tweet: su Giap si discute da anni dell’uso dei frame nel discorso pubblico, in senso lato politico; i frequentatori del blog hanno avuto modo di confrontarsi lungamente su questi temi e non usano le parole a caso, o per fingere conoscenze, ma perché quelle conoscenze le hanno davvero.

          • Va bene. Poi mi dirà allora in che nesso stanno il “frame” e l’uso corretto delle fonti, così forse imparo qualcosa.

            • Partiamo da una premessa, che mi sembra qui tutte/i diamo per valida. Nessuno dei partecipanti al dibattito sta accusando gli interlocutori di usare fonti false.
              Se concordiamo su questo, possiamo proseguire dicendo che la fonte, che abbiamo dato per genuina, è un fatto. Ora, il fatto può essere contestualizzato e interpretato secondo una quantità di criteri variabili: si può adottare una prospettiva cronologica più o meno estesa, si può del pari allargare o restringere l’ambito geografico della ricerca. E ancora: siccome noi non scriviamo e facciamo ricerca nel vuoto pneumatico, ma abbiamo alle spalle generazioni di ricercatori e interpreti, si può scegliere di attribuire maggiore o minore credibilità a questo o a quel filone ermeneutico. È quello che normalmente fa ogni cattedra universitaria: ciascuna in maniera più o meno critica, per ragioni più o meno campanilistiche, ma non è questo che adesso mi interessa. E fuori dell’ambito universitario, lo stesso fa chiunque decide di proporre una propria interpretazione dei fatti.
              Ma tutto questo *è* adottare un frame all’interno del quale situare il proprio discorso.
              Riconoscere o negare una concatenazione causale tra eventi scegliendo di includerne o escluderne alcuni dalla concatenazione stessa è adottare un punto di vista, e dunque collocarsi in un frame. Includere o escludere gruppi di fonti, ritenendole più o meno credibili (in base a criteri come la provenienza, l’autore, il contesto politico in cui sono state formate) è adottare un punto di vista, e dunque collocarsi in un frame. Anche nella situazione ideale della parità di accesso alle stesse fonti vere, avviene che le conclusioni delle analisi di uno possano divergere da quelle dell’analisi di un altro. Il framing non è nulla più di questo.
              Per salvarci dal relativismo alla rorty a cui può condurre un discorso formulato in questi termini, sceglieremo il frame che ci appare più credibile, cioè quello che produce effetto di verità, quello che si oppone ai frame concorrenti confutandoli sulla base di argomenti in grado di tenere logicamente. Ma anche il più logico e argomentato dei frame non cessa per questo di essere frame, discorso orientato, situato in un punto di vista. Spesso occorre tempo perché l’effetto di verità prodotto da un discorso sia accettato e condiviso.
              Dopo due giorni che sto seduto alla scrivania e non posso uscire perché la pioggia non accenna a smettere, il torrente nelle vicinanze del quale è costruita casa mia esonda, l’acqua invade il pianterreno e mi distrugge l’archivio dei dischi. Dopo aver imprecato in tutte le lingue che conosco, comincio a riflettere su quali siano state le cause della sventura: posso dar la colpa alla crudeltà della natura, oppure posso allargare la prospettiva, e pensare che non è stata fatta manutenzione all’alveo del torrente, che il dissesto idrogeologico in Italia è un problema che ha cause umane, umanissime. Quale di questi due discorsi produce il maggior effetto di verità? E in base a quale criterio lo decido? Un criterio di tenuta razionale, e di idoneità a confutare il discorso opposto. E non è forse questo lo scontro di punti di vista che si è prodotto, chessò, dopo la strage del Vajont? I padroni del vapore adottavano il frame della causalità naturale, chi ha fatto controinchiesta ha proposto il frame della causalità umana. Quale dei due frame si è imposto all’opinione pubblica? Il secondo, ma c’è voluto tempo: e pur essendosi imposto, non ha smesso di essere punto di vista. Quello a cui noi aderiamo, ma pur sempre e inevitabilmente punto di vista. Eppure i fatti erano tutti lì: gli stessi. Ciò su cui si dibatteva era il criterio in base al quale leggerli.
              E il testo delle leggi non è forse lo stesso per tutti? Il nudo fatto. Ma io, giurista, gli conferisco un certo senso, mentre un mio collega propone un’interpretazione differente.
              Allo stesso modo: una cosa è affermare un punto di vista storico controargomentando sulle opinioni del mio interlocutore e riconoscendo all’una e all’altra posizione valore di punti di vista contrapposti. Altra cosa è dire che da una parte c’è la retorica ufficiale, dall’altra parte c’è il punto di vista minoritario e egualmente parziale, nel mezzo ci sta il mio modo di fare ricerca storica che è l’unico rigoroso e quindi non è un punto di vista situato. Non è forse un frame, un punto di vista situato, dire di stare nel mezzo?

              • Credo che se avessi un’azienda che producesse frame e frame semilavorati, la chiamerei come responsabile del settore commerciale!

                Scherzi a parte, seguo quello che scrive, ma ecco, vede, io invece nel suo esempio mi sarei preoccupato intanto di mettere in salvo i dischi.

                Il problema sono le fonti. Il problema è l’interpretazione di queste fonti. Penso che ci arriveremo nei prossimi giorni di discussione. Il problema è la verità storica. Poi c’è un contorno ultraincisivo, ma la ricerca se ne deve sbattere e la divulgazione deve capire invece come affrontare. E credo che il cortocircuito stia fra ricerca e divulgazione, che non comunicano granché. Tralasciando il problema numero uno, che qui mi pare essere il convitato di pietra: al di là delle nostre dotte e militanti disquisizioni, il pubblico è lobotomizzato.

                Non ho mai detto che il mio non sia un punto di vista situato. E’ situatissimo. Che non so bene che vuol dire.

          • A me sembra che hai interpretato male il commento di Diego. Lui non dice affatto che Filipaz sostituisce frame con frame, ma che il suo discorso è manchevole in tot punti. Poi può spiegare questa manchevolezza con l’appartenenza a un contesto opposto, oppure manchevole di per sé. Può sbagliarsi o meno, ma il frame in tutto ciò non c’entra nulla, e D’Amelio lo usa non in senso specialistico. Né immagino voglia fare uso consapevole e improprio di categorie specialistiche. D’Amelio ha riserve nel merito degli argomenti e si spiega bene.

  19. Diego,
    scrivi: “Sono d’accordo che si debba fare una storia globale del confine e cerco non a caso di mantenere più relazioni possibili con il mondo sloveno, anche se mi vergogno sinceramente a non conoscerne la lingua.”
    A mio avviso se uno si vergogna di qualcosa fa di tutto per rimediare a quella vergogna: in questo caso, molto banalmente, si impegna ad imparare quella lingua.
    Invece questo è uno sforzo che né tu, né nessun altro di quello che io definirei “l’establishment storico triestino” ha cercato di fare. Tutti a cospargersi il capo di cenere per questa mancanza, ma – di fatto – NESSUNO che abbia avuto la costanza, il rispetto ed abbia sentito la necessità di impiegare parte del suo tempo per imparare le lingue che uno studioso di un territorio mistilingue DEVE conoscere. Eppure nel mondo accademico triestino (italiano) nessuno nota questo paradosso. Come fa uno storico che non conosce lo sloveno ad accedere a documenti, letteratura, archivi e testimonianze nella lingua del vicino (a meno che non disponga di studenti bilingui che gli traducono ogni cosa, ma questo potrebbe essere il caso solamente di qualche barone universitario, non sicuramente di storici che portano avanti ricerche individuali)? Necessariamente la sua analisi e narrazione storica risulterebbe monca di almeno metà del materiale necessario a conoscere con esaustività la storia di quel territorio.
    Puoi pensare ad uno storico francese che si occupa dell’Alsazia-Lorena che non conosca il tedesco? O – viceversa – di uno storico tedesco che non conosca il francese? Puoi pensare a degli storici che si occupano del conflitto coloniale anglo-francese in America del Nord che si permettano di non conoscere una delle due lingue? Credo proprio di no. Oppure, scendiamo nello specifico: daresti credito scientifico ad uno storico sloveno o croato che si occupi dell’Istria o della Venezia Giulia e che non sappia una parola di italiano (e che dunque non possa leggere preziosissimi contributi scritti per esempio da Raoul Pupo)? Sicuramente no.
    Ma è proprio questa mancanza di impegno ad imparare la lingua altrui, questo snobbare (consapevole o inconscio che sia) lo strumento principe per accedere alla storiografia parallela a riflettere per l’ennesima volta l’idea di una superiorità culturale italiana che non ha bisogno di mettersi allo stesso livello di quella slovena e croata.
    Probabilmente questa mia riflessione è leggermente OT (ma forse nemmeno tanto). Su altri aspetti dei tuoi interventi (decisamente troppo prolissi e che dunque necessitano di una lettura ed un’analisi più lunghi), interverrò in seguito.

    • Piero, sono le storia di vita, che devo dirti. Io non sono triestino ma sono finito a Trieste, dove ho studiato, ora vivo in un’altra città e studio in parte anche altre cose: non ho il tempo necessario per studiare lo sloveno, anche perché mi considero più che altro uno studioso della politica, che ha utilizzato i confini per un periodo come caso di studio. E infatti non mi occupo direttamente delle tematiche in discussione. Sono conscio dei miei limiti linguistici e dunque studio quello che posso studiare: in questo momento le gestione politico-amministrativa delle aree di frontiera da parte italiana. E cerco di supplire le mie lacune conoscitive con il confronto con i colleghi di lingua slovena, che è sempre troppo poco. Ma quanto tu dici è assolutamente giusto e non fatico a riconoscerlo: la storiografia locale di lingua italiana si è chiusa culturalmente su sé stessa, con gravi danni per la qualità del suo lavoro. Ma l’isolamento è anche degli sloveni, non trovi? Anche se devo dare loro l’indubbio merito della conoscenza della doppia lingua.

      Questa cosa dell’«establishment storico triestino» la dici ogni volta. Ti riferisci all’università, all’Irsml o a cosa? In privato mi dici chi è parte dell’establishment e chi all’opposizione, così capisco finalmente cosa intendi? Non c’è l’establishment, secondo me, ma c’è una incomunicabilità di fondo, che davvero mi sfugge nel caso della generazione dei più giovani. Sono il primo a credere che si debbano creare occasioni di confronto, come ad esempio accaduto qualche anno fa a Capodistria. Magari chiamando anche esterni. Se vuoi ne parliamo anche da vicino e ci facciamo una pensata. Sarebbe anche modo di conoscerci.

      Sulla mia prolissità. Se sono stato lungo è per la densità di notizie messe sul tavolo da Filipaz. Le mie sono tesi che conosci bene e se trovi la lettura noiosa puoi ovviamente passare ad altro.

  20. Per come la vedo io senza dubbio ciascuno di noi ha per forza di cose il proprio frame narrativo (per favore evitiamo tutti polemiche e attacchi che centrano poco con la discussione), più o meno lacunoso, ed è solo la metodologia del “mestiere dello storico”, come lo chiamava Bloch che ci dà gli strumenti necessari per mettere in discussione il nostro punto di vista e fare passi in avanti verso la comprensione delle realtà passate.
    Certamente anche Filipaz ha il suo frame, ma tra questo e quello della vulgata dominante direi che c’è una bella differenza, una differenza tutta politica che non può essere ignorata: uno dei due ha preteso di “farsi stato”, è sancito per legge. Non le pare che la prima urgenza per poter affrontare l’argomento serenamente sia proprio questa? Contrariamente alla legge sulla «Giornata della memoria» che è volta a commemorare tutte le vittime della deportazione a cominciare dagli ebrei, la legge sul «Giorno del Ricordo» di fatto imposta il dibattito in modo precostituito: “uccisi perché italiani”, a questo punto è la politica che fa invasione di campo nella cultura. Finché ci sarà il giorno del ricordo così come lo delinea la legge vigente il dibattito non potrà essere semplicemente storico, ma sarà per forza di cose politico. Lo sarà perché il testo stesso della legge imposta il dibattito in modo nazionalista, di fatto trasforma una memoria parziale in “storia”, rendendo di fatto “politicamente scorretto” ogni discorso che non paghi il pedaggio al frame nazionalista.
    È esattamente quanto accade nella puntata de il tempo e la storia, si paga il pedaggio per poter parlare di confine orientale sotto forma di testo introduttivo e delle prime frasi dette dal conduttore. Non le pare che siamo nella stessa situazione di quegli intellettuali del blocco sovietico che dovevano per forza di cose aprire i loro saggi con una citazione a caso di Marx e Lenin? Di fronte a questo pedaggio la mia reazione è quella di Havel ne «Il potere dei senza potere», rifiutare l’omaggio all’ideologia dominante e cercare altre persone che intendano fare lo stesso.
    È per questo che ringrazio Filipaz, non perché sposi in toto il suo frame, ma perché il fatto che ci sia un altro frame narrativo in circolazione oltre a quello domande mi rende più libero. Il fatto che qualcuno metta in discussione la narrazione nazionalista, che vi sia un’altra memoria è in questa situazione un bene.
    Quando dico che ora mi sento più libero non parla solo di storia del confine orientale (che in fondo non mi tocca lavorativamente, sto dalle parti di un altro confine grazie al cielo e anche io mi vergogno di non sapere il tedesco); il peso di quella narrazione nazionalista e reazionaria che si esprime nel «Giorno del ricordo» di fatto crea un determinato ambiente con cui chi si occupa di divulgazione storica o di didattica della storia come semplice insegnante o operatore museale deve fare i conti. Un povero disgraziato di operatore museale o di insegnante, magari precario (non è il mio caso per fortuna, ho un buon contratto) non può permettersi polemiche, non può permettersi che l’utenza o il politico di turno lo additi come «comunista». Non sto ad elencarle i casi di situazioni spiacevoli di questo tipo di cui sono a conoscenza anche per delicatezza nei confronti degli interessati. Le assicuro però che in qualunque ambito i portatori di una visione che definirei «anti-antifascista» si muovono con decisione e ben coordinati, senza farsi i nostri scrupoli.
    Se non vogliamo che ogni complessità sia spazzata via dalla vittoria del pensiero unico purtroppo «il mestiere dello storico» non basta (certo non bisogna mai dimenticarlo), ma ci vuole anche un «popolo antifascista» alle nostre spalle e al nostro fianco, altrimenti nessuna divulgazione scientifica riuscirà a spuntarla sulle semplificazioni propagandistiche.
    Certo non vorrei mai ritrovarmi a fare l’intellettuale togliattianamente «integrato» (avevo 6 anni quando hanno staccato la spina al “partitone” e di certe cose non posso neppure averne nostalgia semplicemente perché non c’ero), ma so di aver bisogno per poter lavorare al meglio di un popolo che sia il «mio popolo», con cui condividere almeno alcuni valori base.
    Credo che alcuni di questi valori base io, lei e Filipaz li condividiamo. Il mio non è un invito ad una generica «unità antifascista», ma a ricordarci tutti quali sono i valori fondamentali da preservare. Non è un discorso astratto, ma dannatamente pratico: lei dice che la lettura di Filipaz è errata e omissiva, ma ammetterà che lui non ha falsificato dei documenti né giocato con le cifre delle vittime, né si è inventato orrorifiche storie con cani neri sgozzati e gettati sui cadaveri. In fondo ciò che vi distingue sono più che altro le interpretazioni dei fatti. Dunque per favore, e lo dico a tutti, anche se diamo valutazioni diverse di fatti, cifre e documenti non parliamoci come se avessimo a che fare con un Bruno Vespa, un Petacco o altri mistificatori di professione. Per favore non riproduciamo parlando di storia la sempiterna malattia della sinistra: «se non vuoi esser mio fratello ti spacco la testa!», come si urlano l’un l’atro gli antinazisti rinchiusi nel lager di «Miseria e terrore del terzo reich» di Brecht.
    Filipaz dà dei giudizi duri sui CLN locali, ma riguardo alla repressione titoista scrive anche: «Per contro la repressione fu senza dubbio dura, condotta con metodi polizieschi e anche secondo una logica di repressione preventiva verso i potenziali oppositori alla presa di potere jugoslava, chiunque si opponeva ai poteri popolari diventava automaticamente un fascista agli occhi dei partigiani». Insomma, non mi pare parli solo di jacquerie, anzi usa quasi le stesse parole della relazione italo-jugoslava. Poi certo si può contestare come egli interpreta il ruolo dei CLN locali e dei loro aderenti, ma almeno sui fatti in sè direi che non siamo poi così distanti.
    Quello di Filipaz poi non è un testo storiografico, è organizzato per punti per rispondere in breve ai luoghi comuni delle narrazioni nazionalistiche. Dunque è una contro- narrazione, non pretende di essere un testo esaustivo. Mi pare inoltre che appartenga alla categoria della “memoria”, più che a quella della “storia”. Non a caso lui stesso parla di psicoterapia, non credo avesse la pretesa di dire “ecco vi spiego ciò che è stato”, ma solo “ecco, vi spiego ciò che avete dimenticato”, che è ben diverso. Un conto è voler ricordare alcune cose rimaste in ombra, altra cosa è voler fornire un quadro esaustivo e storiograficamente ineccepibile. Filipaz non dichiara certo di voler fare la seconda cosa.
    Insomma siamo nell’ambito della memoria. Tutti i gruppi umani hanno una loro “memoria”, omissiva e parziale come tutte le memorie, non si può pretendere che solo gli antifascisti rinuncino alla propria per avere solo una storia ricostruita in modo preciso e ineccepibile. Certo il suo mestiere (un pò anche il mio, ma in una posizione diversa) è dire “ok ragazzi, questa è la nostra memoria, la storia è un po’ più complicata”, ma questo non significa che possiamo sbattere la porta in faccia alla memoria della nostra gente, né dimenticare che ne siamo parte.
    Personalmente, magari semplicemente facendo una guida ad una mostra, ho dovuto sorbirmi spesso schutzen nostalgici di Ceco Beppe, alpini (i più simpatici devo dire, anche quando uno ti confessa candidamente che la loro mamma ha ancora il ritratto del duce in casa), cattolici oltranzisti, anziani dorotei a riposo et similia, ho imparato che non potevo dirgli semplicemente “la tua memoria è una cagata”, ma che dovevo sformarmi per cercare di far capire loro la complessità del reale senza violentare quelle che erano le loro convinzioni, la loro visione del mondo. Proprio perché ho rispetto delle memorie altrui sono felice che anche la mia gente abbia la sua memoria e che Filipaz ne abbia espresso un pezzo ricordando alcuni fatti per il grande pubblico.
    Certo il rapporto storia-memoria è sempre complicato, ma non possiamo elidere una delle due. Non credo ci sia contraddizione tra l’essere parte di coloro che coltivano una memoria ed il saperla vedere in modo critico per dovere professionale. C’è un difficile equilibrio da trovare ricordando che abbiamo bisogno sia dello studio freddo e razionale sia della memoria, del sentirci sentimentalmente legati ad una collettività che ha i suoi riti, i suoi miti ed i suoi frame narrativi.
    Inoltre badi che io non ho proposto di metterci tutti assieme appassionatamente a scrivere un saggio, ma ho proposto di usare la metodologia della didattica laboratoriale, ovvero prendiamo la relazione italo-slovena del 2000 (si parte da lì ovviamente, per un motivo molto semplice è un testo completo e riassuntivo di provato valore) e la “illustriamo” attraverso documenti storici che ne mostrino i passaggi fondamentali. La novità sarebbe quella di dedicare lo stesso peso alle sofferenze delle diverse parti. Ad es: dedichiamo 10 documenti all’occupazione della jugoslavia da parte del Regio Esercito ed altri 10 all’azione dell’esercito popolare jugoslavo nel litorale, oppure esponiamo 5 diverse testimonianze di esuli, con 5 motivazioni diverse (sono solo esempi, sia chiaro).
    Mi sembra un modo per costruire una narrazione che colloca la nostra memoria in un quadro più complesso senza annullarla, ma mettendola accanto ad altre memorie. Ovviamente anche qui c’è un frame narrativo di fondo: le sofferenze e i morti «italiani» e quelli degli «altri» hanno lo stesso peso.
    Magari sarò un inguaribile ingenuo da seconda internazionale, convinto che se ci sediamo tutti intorno ad un tavolo e ne parliamo con calma possiamo produrre qualcosa di buono con un compromesso al rialzo. Ci tengo a ribadirlo, il compromesso se è al rialzo è sempre fondamentale in questi casi, occorre un compromesso tra persone (e all’interno della stessa persona) perché la dialettica storia/memoria non ci esploda in faccia, occorre un compromesso tra diverse memorie e tra diverse visioni storiografiche. Senza compromessi rimaniamo ciascuno chiuso nel suo angolo e serviamo a ben poco.
    Se è possibile prego i gestori di «Giap» di girare la mia mail a chi vuole cimentarsi nella cosa, se siamo in abbastanza e con abbastanza competenze possiamo provare.

    • Credo di aver già detto e non voglio monopolizzare il dibattito, dimostrando peraltro che la mia sia una triste domenica…

      No, la presenza del frame giappiano non mi rassicura particolarmente. Se parliamo di memoria/e va bene tutto, concordo, ma se parliamo di ricostruzioni non credo che la libertà sia garantita da altro se non dal massimo rigore possibile, facendo preventivamente ammenda delle cose imprecise che posso aver detto fin qui per ignoranza e non per sostenere la mia tesi a prescindere.

      Proprio perché non ritengo Filipaz parte dei mistificatori di mestiere, sono intervenuto. Con i propagandisti non spreco il mio tempo perché è una causa persa in partenza.

      Apprezzo moltissimo il suo intervento e contesto solo il discorso del «compromesso a rialzo». Il suo approccio mi piace e potremo sicuramente parlarne, se Giap ci mette in contatto. Mi dia solo il tempo di trovare un nuovo contratto, visto che ora non penso ad altro che a sopravvivere, essendo in scadenza come uno yogurt…

      • Grazie, direi però che possiamo cominciare a darci del “tu”, mi pare d’aver capito che siamo circa coetanei e nessuno vanta posizioni di potere in università o altro. A risentirci

  21. Diego,
    non occorre che te lo dica in privato, hai capito benissimo chi intendo per establishment storico: gli storici mainstream del confine orientale, quelli che saltano fuori come il prezzemolo su tutti i media ogni 10 febbraio, che gestiscono manifestazioni pubbliche in ambito regionale a tema storico (e – plausibilmente – relativi finanziamenti) e che possono fare e disfare le carriere dei giovani ricercatori a seconda di ciò che questi ultimi scrivono o dicono. E che soprattutto si dileguano come anguille quando viene proposto o si profila un incontro con quelli che – rispetto alle tematiche del confine orientale – vengono definiti da loro stessi “storici militanti di sinistra” (con espressione peraltro paradossale, come se non si potesse essere “storici militanti di centro”).
    Ben venga l’occasione del confronto pubblico: magari in sede istituzionale, come ho già proposto nell’ultimo scambio di opinioni su Giap (ti rinnovo la proposta di organizzare un dibattito all’Irsml).
    Temo però che, come sempre, queste occasioni non avranno alcuna possibilità di realizzarsi, e sicuramente non per l’indisponibilità degli storici non accademici. Scrivi “l’isolamento è anche degli sloveni, non trovi?” No. Non trovo. Per anni, prima della defenestrazione di Darko Darovec all’Università di Capodistria ci sono state occasioni di incontro e di scambio di idee lanciate da storici sloveni di grande valore, quali Pirjevec, Bajc e Klabian. A queste occasioni gli storici italiani partecipavano con riluttanza. Ricordo benissimo, ad esempio, la mancata partecipazione di Raoul Pupo o di qualsiasi altro docente dell’Università di Trieste (che pur erano stati invitati) allo splendido convegno su Osimo fatto all’Università della Primorska nel 2005. Avranno avuto i loro problemi personali, non so, ma ciò che mi conferma la chiusura totale non degli sloveni, bensì del mondo universitario triestino non è tanto la mancata partecipazione, quanto il fatto che il ricchissimo volume degli atti di quel congresso, “Osimska meja” (scritto per quasi un terzo in italiano), non sia stato nemmeno citato nel numero monografico di Qualestoria “Osimo: il punto sugli studi” del 2013. Chi è che si sta isolando? Chi è che rifiuta il confronto?

    PS per i lettori meno addentro l’argomento: Qualestoria è il Bollettino dell’Irsml di Trieste.

    • Così andiamo nelle beghe di cortile, che temo non interessino ai lettori di Giap. Dico soltanto che non so cosa sia uno «storico mainstream» e ti assicuro che ci sono ben pochi soldi da gestire, macchinazioni e carriere da distruggere. Io collaboro con gli storici manistream, come li chiami tu: ho certamente respirato il loro punto di vista, ma sono libero di scrivere ciò che mi pare, rimanendo precario ed essendomi procurato da vivere sempre fuori Trieste e sempre senza loro appoggi dopo il dottorato. Tutte queste tesi cospirazioniste le lascerei da parte, ma noi abbiamo una mezza generazione di differenza e posso capire che tu abbia una percezione diversa, perché una ventina d’anni fa le cose erano effettivamente differenti. Nel 2005 stavo pensando alla tesi di laurea e non erano quindi i miei anni. Da adesso, se ci sono iniziative in Slovenia sarò felicissimo di presenziare e anche di parlare, se i temi sono di mia competenza.

      Mi pare che il gruppo che gravita attorno a Kappa Vu si definisca di «resistenza storiografica». E anche questo non so che significhi. Secondo me esistono solo la storiografia rigorosa e quella non rigorosa nell’utilizzo delle fonti. Resistere implica una posizione non laica, a mio avviso, e rifiuto questo atteggiamento.

      Toccato negli affetti, preciso che Qualestoria non è un bollettino, ma una rivista scientifica accreditata dall’Anvur.

      • Non sono beghe da pollaio: gli storici mainstream di Trieste sono quelli che hanno impostato e continuano ad impostare la visione storica che è alla base del Giorno del Ricordo. E siccome è un argomento da specialisti poco conosciuto altrove, la loro versione viene bevuta e digerita dall’opinione pubblica italiana e anche da altri storici (quelli che continuano ad impostare la questione foibe ed esodo in termini nazionali, quando entrambi i fenomeni sono decisamente più complessi).
        Quanto alla KappaVu e alla collana Resistenza storica, sono assolutamente d’accordo con te: esiste la storiografia rigorosa e quella non rigorosa nell’utilizzo delle fonti. Quello che si fa alla KappaVu è essere rigorosissimi. E siamo così rigorosi che utilizziamo fonti italiane e slovene, pensa un po’!
        Presumo infine che per te essere laici (e rigorosi) significhi essere non schierati e super partes: bene, come ha abbondantemente dimostrato Hobsbawm (ma in realtà basta la logica) nessuno può cancellare il proprio pensiero ed ognuno dà una lettura dei fatti storici che è mediata dalle proprie idee. Essere politicamente moderati non significa assolutamente essere super partes o neutrali: come ho già scritto esistono “storici militanti di centro”, tra i quali credo ci sia anche tu.
        Quanto a Qualestoria non volevo né screditare, né fare ironia: mi sono limitato a riportare quanto veniva scritto sotto la testata della rivista nel 2000 quando ancora (almeno io) potevo scrivere articoli senza essere sottoposto a censura.

        • «Gli storici mainstream di Trieste sono quelli che hanno impostato e continuano ad impostare la visione storica che è alla base del Giorno del Ricordo».

          Questa è una panzana magnifica, Piero. Ma secondo te, gente come Apih, Pupo, Valdevit (e non so chi vuoi aggiungere al mainstream) ha avuto davvero parte in commedia nella legge del Ricordo e orchestra le chiavi di lettura – chessò – di Lega nazionale, Casa Pound, Bruno Vespa e Anvgd, citando a caso un po’ di entità di varia destra coinvolta nel nodo? Ma tu lo sai come questi mainstream erano visti in quegli anni dal nazionalismo triestino, dalle associazioni di esuli più schierate a destra e dai parlamentari che all’epoca hanno promosso la celebrazione?

          Qual è la «loro» versione? Perché dopo chilometri di parole ho letto forse un paio di obiezioni alle informazioni che ho messo sul tavolo? Io aspetto fiducioso Filipaz, sperando in un confronto pacato e costruttivo.

          Non tolgo valore al vostro lavoro. Conosco e trovo molto utili svariati passaggi del tuo ultimo testo, ho utilizzato e utilizzo Volk nel suo lavoro sugli insediamenti filoguidati degli esuli a Trieste. Figurarsi. Contesto solo l’idea di abbinare il mestiere alla resistenza.

          Hobsbawm è un maestro. Ma se ti dicessi che la sua nozione di «secolo breve», dopo avermi trovato concorde negli anni della laurea, mi trova oggi molto dubbioso? Cos’è, ho smontato Hobsbawm oppure ho solo reso le cose più problematiche?

          Ti avrei anche risposto sull’affascinante tema del rapporto fra le proprie personali convinzioni (e ti assicuro che ho il mio bel tormento interiore a volte) e il mestiere di storico. Solo che poi mi dai subito dopo dello «storico militante di centro» e mi viene da ridere. È la definizione più spaziale che mi sia stata affibbiata in vita mia, credimi! Pensa che all’antistalinismo ci sono arrivato passando per Bordiga. Poi ho compiuto molte altre tappe nel mio percorso culturale, ma intanto…

          Io dirigo Qualestoria da un anno soltanto. Non so se ci siano state censure, tendo comunque a dubitarne, ma non dico niente su questo perché fa parte di un passato di cui non sono stato nemmeno testimone. Nel giugno 2016 abbiamo in programma un numero di argomento adriatico costruito su invito e siamo apertissimi a ogni proposta. Quindi invia un tuo contributo, scrivendo alla redazione o a me, se Wu Ming ti gira la mia mail. Nessuna preclusione. Come sempre: abstract e cv alla redazione, approvazione della redazione con eventuali osservazioni, scrittura e infine doppio peer review, che in un caso del genere affiderei senza dubbio ad un revisore anonimo di lingua italiana ed un altro di lingua slovena, anche meglio se ne trovo di competenti ma non locali. Quando vuoi/volete. Gli impegni deontologici di Qualestoria sono qui: http://www.irsml.eu/rivista-qualestoria/responsabilita-editoriale/401-responsabilita-editoriale . E io li rispetto e li faccio rispettare al millimetro.

      • Scusate l’ OT ma non resisto. Premesso che non sono uno storico, a occhio mi pare che Qualestoria sia una rivista più che dignitosa. Ma per favore non tiriamo fuori l’ANVUR:

        http://www.roars.it/online/le-riviste-scientifiche-dellanvur-dal-sacro-al-profano-e-dalle-stelle-alle-stalle/

        D’Amelio, io lavoro all’Università, anche se in un settore diverso dal tuo. Non giochiamo a fare i puri, per favore. Chiunque lavori all’Università sa quali compromessi bisogna accettare, e sa quanti rospi bisogna ingoiare per stare a galla; chiunque lavori all’ università sa cos’è una cordata, e sa quanto contino i contatti al ministero per ottenere i finanziamenti ai programmi di ricerca.

        Mi fermo qui per non far deragliare la discussione, ma un tanto mi sembrava il caso di dirlo.

        • Dal pollaio alla corporazione, tuco! :-) Ma sì, era per dire. Nella fascia delle scientifiche di storia contemporanea c’è pure il bollettino dei frati francescani di un paese a scelta. Volevo solo rimarcare con una battutella che non siamo più il vecchio Bollettino dell’Irsml (per quanto glorioso) ma una rivista che fa cfp, ha revisori e che ha allargato i suoi orizzonti tematici, geografici, storiografici e tutto quello che finisce in ici.

          E chi gioca a fare il puro. Se vuoi ci sentiamo in privato e ci confrontiamo sulle rispettive esperienze di compromessi, servaggi, cordate, che circondano il nostro mondo ameno. Non so se faccio parte di qualche cordata – ho cambiato tre sedi senza mai una corda – ma certamente ci sono relazioni, conoscenze, contatti (e anche un pezzetto di influenza conquistata speriamo col lavoro). Ma questo è un altro discorso. Il punto è che, ammesso che io faccia parte di una cordata, nessuno mi ci ha legato chiedendomi cosa ne pensassi delle foibe e dell’esodo… Dalle mie parti ormai si parla di lungo periodo e storia globale: sai che gliene importa di 300.000 istriani o di cento chilometri di linea di confine…

          • Forse non ci siamo capiti. Il mio non è un discorso D’Amelio-centrico. Io ho posto il problema di come funziona il mondo accademico, e di come sia “ingenuo” sostenere che il lavoro di chi fa ricerca (in qualunque campo) sia al riparo da condizionamenti politici specifici – per non parlare dei condizionamenti che provengono dal particolare Zeitgeist.

            Del resto l’hai detto tu stesso, no?

            […] la cosa ha riportato – volente o nolente – alla ribalta le vicende del confine orientale e dato modo a noi (che di destra proprio non siamo, anzi) di lanciarci su progetti di ricerca, tesi di dottorato, convegni, conferenze, scrittura di libri. Perché si fa ricerca anche sfruttando filoni che sono momentaneamente – e vedrai che fra un po’ il battage si spegnerà di nuovo anche sulla Venezia Giulia – di moda.

            • Continuo a dire che non conosco colleghi condizionati dall’istituzione del Giorno del ricordo nelle loro ricerche e tantomeno dallo Zeitgeist. E lo dico con una buona dose di approssimazione, visto che siamo quattro gatti.

              • Femo che se capimo?

                Tu hai detto che grazie al giorno del ricordo foibe e esodo sono diventati di moda e quindi tutti si sono buttati a far ricerca su quello.

                Sul sito dell’ IRSML c’è scritto:

                Con l’introduzione nella legislazione italiana della commemorazione della «Giornata della Memoria» prima e del «Giorno del Ricordo» successivamente, l’impegno dell’Istituto e dei suoi collaboratori si è notevolmente ampliato, in risposta alle sempre più numerose richieste di intervento su queste tematiche provenienti da enti, istituzioni, associazioni, in regione e fuori. Frutto di tale impegno, oltre alla partecipazione in varie forme a una molteplicità di iniziative su tutto il territorio nazionale, la produzione di strumenti didattici capaci di narrare e contestualizzare gli eventi ricordati. Escono così nel 1997 Il confine mobile. Atlante storico dell’Alto Adriatico 1866-1992: Austria, Croazia, Italia, Slovenia, nel 2007 il Cd-rom Storia del confine orientale italiano 1797-2007. Cartografia, documenti, immagini, demografia e la guida Un percorso tra le violenze del Novecento nella provincia di Trieste. Un particolare impegno viene profuso dai collaboratori dell’Istituto nel porre all’attenzione degli studiosi e dei cittadini italiani le vicende dolorose delle foibe e dell’esodo dei giuliano dalmati. Oltre alla opere già ricordate, vanno segnalati i numerosi contributi di Galliano Fogar apparsi sulla rivista dell’Istituto, nonché gli studi di Giampaolo Valdevit, Raoul Pupo e Roberto Spazzali, che sono stati pubblicati da parte di editori nazionali: ad esempio Foibe, di R. Pupo e R. Spazzali, Bruno Mondadori, 2003 e Il lungo esodo, di R. Pupo, Rizzoli, 2005. Grazie al rigore di questi studi, divenuti il punto di riferimento per la storiografia italiana su tali argomenti, ed all’impegno di divulgazione profuso dai collaboratori dell’Istituto, si può di che l’Istituto medesimo è divenuto il motore, riconosciuto a livello nazionale, per la didattica delle foibe e dell’esodo.

                Quindi.

                1) Con l’istituzione del giorno del ricordo certi temi di ricerca hanno avuto il sopravvento su altri

                2) Lo sforzo, pur commendevole, di contestualizzare i fatti legati al giorno del ricordo, implica ipso facto l’attribuzione di una centralità a questi fatti nella storia del novecento in Italia – e in Europa-, che a mio parere è tutta da dimostrare. Se si parla di Rab solo per contestualizzare le foibe, il focus è comunque sulle foibe, e questa lettura teleologica degli eventi del confine orientale, nonostante le (più o meno) buone intenzioni, non fa che confermare il frame di cui discuteva prima, e pertanto è fortemente politica.

                3) Se l’IRSML è diventato “il motore per la didattica delle foibe e dell’esodo” e se i risultati sono quelli di cui parlava TomTrento qua sopra, allora qualche dubbio forse vi dovrebbe venire.

                • Ci tengo a precisare una cosa: i materiali di tipo didattico/divulgativo prodotti dall’IRSML sono la cosa migliore che conosca sull’argomento, credo che chi ci lavora faccia tutto il possibile per dare una visione il più possibile esatta dei fatti. Concordo con Tuco sul fatto che vi sia un problema politico:il frame “Giorno del ricordo” così come è definito dalla legge, di cui tra l’altro ci potremmo liberare senza abolire il giorno del ricordo, semplicemente sostituendo i termini “tragedia degli italiani” con “tragedia di tutte le vittime del nazionalismo” e magari pensare ad un anniversario congiunto con Austria, Slovenia e Croazia (cosa che favorirebbe gli scambi culturali). Intanto però è bene che chi lavora all’IRSML continui a fare ciò che fa ora, se non ci fossero loro la situazione sarebbe anche peggiore e capisco bene che sul lavoro si debbano accettare dei compromessi, non perché ci si pieghi a chissà quali pressioni, ma perché purtroppo siamo in una società capitalistica e la cultura è una merce, pertanto ci tocca impacchettarla come il cliente se la aspetta. Ma questo non ci deve impedire di essere consapevoli dei meccanismi in atto e di fare il possibile per cambiarli. Cerchiamo però di non contrapporre quelli che Havel chiamava “il lavoro minuto dentro il sistema” e “l’azione dissidente”, c’è bisogno di entrambe.

                  • Ovviamente quando dico “chi lavora all’IRSML fa bene a fare ciò che fa ora” sto parlando solo dei materiali didattici non di ricerca, conferenze o altro di cui non ho modo nè le competenze per giudicare. Solo provate a cercare sul web “materiali didattici foibe ed esodo” e vi accorgerete di che roba gira. Se non ci fossero i materiali IRSML (che pure trovo abbiano i loro limiti dovuti all’accettazione del discorso politico di cui sopra)resterebbe solo roba modello “il cuore nel pozzo”.

                • Sarò breve, perché ammetto di cominciare a essere un po’ sfibrato dalla discussione.

                  1. Falso. Semplicemente i temi hanno cominciato a riscuotere gli interessi di comunità esterne a Trieste e sono stati realizzati una serie di prodotti e conferenze. Quando è stato istituito il Giorno del ricordo, i vari quadri interpretativi erano già tutti sul tavolo.

                  2. Forse funziona così per l’uso pubblico. Ma non certamente per gli storici. Credo che nessuno di essi ritenga le violenze del confine orientale più impattanti – faccio un solo esempio fra mille – di quanto toccato alle minoranze tedesche in Europa nel secondo dopoguerra.

                  3. Io non qualche dubbio, ma un’infinità. Chi è “scientificamente” impegnato sul tema conta pochissimo e i fatti finisce per divulgarli – anche qui un esempio fra tanti – Cristicchi. Quindi sì, credo che si sebbano trovare forme diverse e credo anche che la cappa omologante prodotta dal 10 febbraio sia difficilmente scalfibile. Se la domanda è: “Hanno vinto loro?”. La risposta è: “Forse sì”.

                  Se capimo?

                  • 1) Vero. Solo che la politica ha imposto la “ricerca” (perché nessuna ricerca è stata fatta e si è ripetuto semplicemente quello che affermavano le oranizzazioni degli esuli – nelle varie versioni, da quelle più hard a sulle foibe soft) nella fase precedente alla istituzione del Giorno de Ricordo e come sua preparazione. In ciò il ruolo di Pupo è stato determinante.
                    2) Il libro “Esodi” dimostra l’esatto contrario di quanto affermi
                    3) L’IRSML è stato effettivamente il motore per la didattica, ma in senso negativo, proponendo delle interpretazioni tutte politiche e “organizzazionidegliesuli friendly”. Cristicchi riprende pari pari cose scritte da gente che all’IRSML (e in altri istituti) ci stà da anni in posizioni decisionali – un nome? Spazzali. E non mi risulta che l’IRSML, che “tanto fa per combatere le strumetalizzazioni”, abbia mai preso pubblicamente e decisamente posizione contro le stronzate che racconta Cristicchi. E’ toccato farlo (sinceramente non ho nessuna voglia di occuparmi di foibe) ai “negazionisti”. Però al contrario di te io penso che la gente non è lobotomizzata e che si subisce ste cose come ne subisce altre (compreso il Giorno della Memoria), ma non so quale possa essere il reale impatto.

                  • 1. Io non sono triestino. Sono cresciuto in ambienti lontanissimi da queste vicende e me ne sono interessato dall’università. Ho letto a sufficienza per farmi un’idea delle cose e non mi pare davvero che il discorso degli storici sia appiattito su quello degli esuli. Il nostro «moderato» fascicolo di QS su Osimo ha suscitato non pochi maldipancia, anzi.

                    2. Non capisco perché lo dici.

                    3. Tra Cristicchi e l’Irsml non ci sono legami. Cosa abbia letto Cristicchi nella sua cameretta non lo so. Io personalmente – e l’ho già scritto nella discussione sullo spettacolo – non ho davvero sentito il bisogno di denunciare alcunché, perché è uno spettacolo e mi piace la libertà. Può dire quello che vuole, anche se non ho problemi a dire che il taglio dello spettacolo – quasi niente sul fascismo – ha contribuito a orientare la vulgata nel senso che dici tu. Poi se vuoi sapere che ne penso, credo sia in effetti molto banalizzante. Sulle vicende di queste terre, preferisco senza dubbio L’eredità dell’ostetrica di Maurizio Zacchigna.

  22. Complimenti davvero per i contributi e per la polemica costruttiva. Rimango perplesso sul tentativo di didascalizzazione semplificata/volgaizzazione che dir si voglia. La sintesi che si otterrebbe non so se sarebbe soddisfacente dato che svilirebbe la complessità dell’argomento e lascerebbe comunque troppi buchi interpretativi che già son presenti in un’analisi così approfondita. Aiuterebbe il grande pubblico solo uno scarto grosso che eviti appigli nazionalistici?

    • Se si intende quella che proponevo io, ripeto che non pensavo ad una sintesi, ma ad un percorso didattico/divulgativo che illustri con una serie di documenti quanto esposto nella relazione della commissione italo-slovena del 2000. Lo so benissimo che un operazione del genere avrebbe buchi grandi come case ma è nella natura di tutte le volgarizzazioni. La cosa però colmerebbe un vuoto bello grosso: si avrebbe finalmente qualcosa rivolto in primo luogo a studenti e insegnanti che parli della storia del confine orientale e non degli italiani sul confine orientale, qualcosa che desse lo stesso spazio alle testimonianze di entrambe le parti senza dover pagare “il pedaggio”, senza dover iniziare con il “venghino siore e siori che parleremo della tragedia che colpì gli italiani”. Certo sarei più contento che una cosa del genere la facesse l’ISRML, che ripeto, ha prodotto le cose migliori di questo tipo che si trovino sul web, ma ancora una cosa così, su modello di MEJA-guerre di confine, non mi pare che l’abbia fatta.

      • Parliamone davvero. Se partiamo dalla Commissione, l’Irsml è apertissimo.

        [Il sistema mi rimprovera con un “Uhm… il tuo commento è troppo breve. C’è un’alta probabilità che sia totalmente privo di senso. Sforzati un poco di più, grazie!”, ma io di più non ho da dire]

  23. Forse non te ne sei accorto, ma il mio accenno al numero di Qualestoria che ignorava bellamente il libro sloveno su Osimo è relativo al 2013, non al 2005…
    Comunque adesso chiudo perchè stiamo andando troppo fuori tema

    • Perché non proponi un saggio alla rivista inerente quei temi allora? Ripeto che le porte sono aperte!

      • E no caro D’Amelio, se proprio vuoi dare una patinatina di “apertura” anche “ai minoritari” (guarda caso nel momento in cui quei minoritari tanto minoritari non sono più) alla tua rivista e visto quanto ha combinato e combina l’IRSML ed i suoi maggiorenti (ricordo uno scherzo simile fatto dal onnipresente Pupo, che in un quaderno dell’Istituto vanoni, credo, ha pubblicato fianco a fianco un’articolo della Troha e uno di ….. – indovinato!: Giorgio Rustia) non puoi proprio porre condizioni (anche perché ci siamo già passati – chiedere al Purini in merito). Quindi prepara una bella motagnola di soldi per l’autore, nessuna approvazione preventiva ne osservazioni,pubblichi come ti arriva e l’argomento lo scieglie l’autore a suo piacere (non sarà certo sulla peronospera in Papuasia nell”800). Anzi, per maggiore garanzia entro a far parte della redazione. Te gusta? Tieni presente che forse qualche copia con un articolo di Purini o qualcun’altro riuscite pure a venderla.
        Magari potrebbe diventare realtà, un giorno ci ritrovi in massa tra i soci del”meritorio istituto”, che con la nostra presenza diventerebbe addirittura “eccelso”.

        • Senti Volk, però cerchiamo di essere seri e non solo polemici a prescindere.

          1. Io non sono figlio, figlioccio o parente di chicchessia. Attacca Pupo per quello che scrive e fa Pupo. Attacca me per quello che scrivo e faccio io. Attacca me per l’attuale direzione della rivista, attacca altri per le gestioni precedenti. Sennò non ne usciamo e anzi si alimenta il punto di vista – che evidentemente hai – che questi ambienti siano monolitici e organizzati come una setta.

          2. Nessun autore/curatore della rivista è mai stato pagato in quarant’anni, credo. Sicuramente non avviene da decenni. Nessun membro del comitato di redazione è pagato. Non lo è il direttore. Non si usa e inoltre il «meritorio istituto», come lo chiami con simpaticissimo sarcasmo, non naviga nell’oro, nonostante sia asservito al Potere.

          3. Tutte le moderne riviste di ricerca umanistica hanno da anni adottato la pratica del doppio blind peer review e pratiche deontologiche che ho indicato e che si trovano sul nostro sito. La rivista è inoltre sorvegliata da un comitato scientifico di prim’ordine.
          Il testo proposto è inviato in forma anonima a due esperti del tema (a loro volta anonimi per l’autore e fra di loro), che ne valutano innovazione, qualità scientifica, utilizzo della bibliografia, fonti utilizzate, forma. Il saggio è valutato secondo una scheda e le due schede (o tre se i primi due referee sono in disaccordo) sono poi inviate all’autore, che deve conformarsi a quanto prescritto. Su tutto questo la redazione non può metter bocca: decide cioè i due revisori sulla base del loro curriculum (ma so che qui sosterrai che la scelta sarebbe informata a criteri discriminatori), ma non può discutere poi il loro operato, limitandosi a vegliare su conflitti di interesse e ruggini varie. Indi, saprei ovviamente a chi non dare in valutazione un tuo saggio.

          4. Il tema era solo un suggerimento, non ho/abbiamo alcuna preclusione.

          Ciò che mi rattrista è che mi accusi di poca trasparenza ed è un processo alle intenzioni che non ritengo di meritare. È evidente che non sai proprio come sono fatto.

          • Diego, mi sa proprio che quella di Sandi sulla “montagnola di soldi” era una battuta, come del resto quelle subito prima e subito dopo.
            Detto questo, mi sembra che in questa sede, su cosa separa i due approcci non ci sia altro da aggiungere, a meno di non diventare davvero troppo specifici e quindi zero comprensibili al di fuori di un certo ambito.
            L’intento di Giap è fornire strumenti critici per riconoscere i falsi e smontare la vulgata, il “mito tecnicizzato” del binomio Foibe – Esodo. Cerchiamo di mantenere questo focus.

          • Grazie delle delucidazioni, ma è una prassi che conosco (ho anche fatto il recensore, guarda un po’). A me mi rattristano tante cose, non ti preoccupare, poi passa. Che vuoi, le passate e presenti esperienze mi rendono molto diffidente verso certi ambienti. Tanto più se si viene a fare dibattiti storiografici e dare lezioncine su un blog che critica QUANTO VIENE RACCONTATO il 10 febbraio, si spara un sacco di “cose poco rigorose” (che somigliano molto a quelle degli ambienti citati sopra) e poi si fa finta di non capire o si da la colpa alla fretta. Ti ho già detto, il confronto quando vuoi, ma nelle sedi appropriate e alle giuste condizioni. E ora veramente basta, devo farmi il pasticcio, che mi viene molto meglio che scrivere di storia o sui blog.

            • Forse ci troviamo su quest’ultimo punto allora. Io sto infornando un pesce con le patate. Viste le attuali prospettive di carriera, possiamo pensare ad aprire un ristorante e smettiamo di litigare.

  24. Quello che il regno d’Italia prima ed il fascismo poi hanno compiuto nel Confine Orientale è una pulizia etnica aggravata da ulteriori crimini mai puniti! L’enciclopedia treccani.it così definisce la pulizia etnica: “Programma di eliminazione delle minoranze, realizzato attraverso il loro allontanamento coatto o ricorrendo ad atti di aggressione militare e di violenza, per salvaguardare l’identità e la purezza di un gruppo etnico”.Gli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, n. 232 alla voce del crimine di genocidio prevede che “ai fini del presente Statuto, per crimine di genocidio s’intende uno dei seguenti atti commessi nell’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, e precisamente: a) uccidere membri del gruppo; b) cagionare gravi lesioni all’integrità fisica o psichica di persone appartenenti al gruppo; c) sottoporre deliberatamente persone appartenenti al gruppo a condizioni di vita tali da comportare la distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo stesso. Alla voce crimini contro l’umanità si può leggere che “ ai fini del presente Statuto, per crimine contro l’umanità s’intende uno degli atti di seguito elencati se commesso nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco: a) Omicidio; b) Sterminio; d) Deportazione o trasferimento forzato della popolazione; e) Imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale in violazione di norme fondamentali di diritto internazionale; f) Tortura; h) Persecuzione contro un gruppo o una collettivita’ dotati di propria identita’, inspirata da ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico, culturale, religioso o di genere sessuale ai sensi del paragrafo 3, o da altre ragioni universalmente riconosciute come non permissibili ai sensi del diritto internazionale, collegate ad atti preveduti dalle disposizioni del presente paragrafo o a crimini di competenza della Corte; i) Sparizione forzata delle persone.Per crimini di guerra invece si possono intendere atti commessi come parte di un piano o di un disegno politico o come parte di una serie di crimini analoghi commessi su larga scala consistenti in omicidio volontario, cagionare volontariamente grandi sofferenze o gravi lesioni all’integrita’ fisica o alla salute; distruzione ed appropriazione di beni non giustificate da necessita’ militari e compiute su larga scala illegalmente ed arbitrariamente ecc.
    mb

  25. SUI COMMENTI ALLE MIE FAQ – #GIORNODELRICORDO

    Eccomi, Diego D’Amelio, sono Lorenzo Filipaz. Innanzitutto ti ringrazio per il tuo puntuale e articolato intervento, ci contavo. Ravviso tuttavia alcuni errori di lettura del mio contributo che a mio modo di vedere sono ascrivibili da un lato ad una sorta di deformazione professionale da storico e dall’altro a diverse visioni politiche di fondo.

    Per prima cosa posso dirti che sono perfettamente cosciente del fatto che la mia NON è una ricostruzione storica rigorosa, anzi, non è per niente una ricostruzione storica: se badi bene la Storia occhieggia tra le mie domande in modo ricorsivo ed ellittico, la storia non si fa con delle FAQ, prestito informatico che qui conserva la sua originaria funzione: risolvere i bug di un dispositivo.
    Molte sono le cose che ho lasciato fuori e non ho approfondito, perchè il mio obiettivo non era offrire un quadro cronologico esaustivo (che sarebbe stato inopportuno e poco fruibile su una pagina web, già così corposa, e in secondo luogo non mi sogno di sostituirmi alla storiografia accademica) ma piuttosto quella del debunking di innegabili falsità storiche propinate durante il giorno del Ricordo, sulla cui qualità – mi pare di capire – concordiamo ed è la sola “certezza granitica” che intendevo sostenere. Le semplificazioni inevitabili in cui sono incorso sono riconducibili a questo intento che è un intento “politico”, non lo nascondo così come sono ben consapevole dal megafono culturale offertomi dal collettivo Wu Ming, anche se sono convinto che la militanza di cui più o meno implicitamente mi accusi non corrisponda affatto al mio personale tipo di militanza culturale che realmente mi ha spinto a scrivere questo articolo. Lo deduco dal fatto che hai ritenuto di dover rettificare anche a cose che non ho né detto né ventilato ma che hai probabilmente ritenuto essere in linea con la mia ipotetica “parte” politica. Insomma anche tu mi hai ricoperto di quel “cemento liquido” cui alludi riferendoti al trattamento riservato a chi rivendica “appartenenze diverse e plurali”, forse perchè ho alluso a Miccoli, forse perchè ho citato due libri della Kappa Vu? Perchè scrivo su Giap? Certamente ce n’è abbastanza per etichettarmi dal tuo punto di vista, ma questo perché, D’Amelio, per quanto ti affretti a negarlo, il tuo discorso è affetto a sua volta da una precisa impostazione politica che ti induce a colate di cemento altrettanto facili.

    Tu hai “demolito” Miccoli praticamente usando gli stessi concetti di Valdevit nel ’97. Fu un ribaltamento di paradigma a seguito di nuove prove documentarie? A me non sembra e tu stesso hai scritto che a cambiare, rispetto agli anni all’IRSML di Miccoli, era soprattutto il clima politico circostante, diverse erano le domande che la politica faceva alla Storia e a chi se ne occupava per professione. Valdevit prese una posizione che io trovo molto in linea con quella che nello stesso momento prese Luciano Violante. Scelte politiche che, nonostante i meriti storici di Valdevit, non solo non condivido ma le cui conclusioni trovo altamente inique. Possiamo discuterne, ma a patto di smettere il camice bianco della scienza e di parlare da essere umano a essere umano, ognuno con le rispettive idee, coscienti che discutiamo di politica e non di composti chimici in laboratorio di cui debbano occuparsi esclusivamente gli addetti ai lavori. Ciò che apprezzo in Miccoli, o meglio nella sua presa di posizione di cui stiamo parlando (non mi sembra peraltro abbia mai palesato precise affiliazioni politiche), è la consapevolezza che egli esprimeva della necessità che lo storico stia con i piedi ben piantati “sulla strada”, intesa come mondo reale, società civile. Qualità che trovo ahimè carente nella nostra generazione Diego, precarizzata, con le pezze al culo, costretta a mendicare borse e fondi a destra e a manca, costretta pure a ripetere e ripetersi di vivere nel migliore dei mondi possibili, quello del “mercato post-ideologico”, non disponendo degli strumenti critici che solo una prospettiva collettiva potrebbe dare al singolo per fronteggiare un sistema in crisi che riversa sui singoli la responsabilità della propria crisi. Uno scenario dove alla ricerca storica (e non solo) indipendente vengono tagliate le gambe mentre sono premiati gli “stronzetti di partito”, quelli in grado di “soddisfare il cliente”. Il nostro potere di contrattazione – come generazione – è al minimo storico, perché siamo soli, individui isolati. Per questo credo sia importante dialogare con tutto il mondo della cultura o con ciò che ne rimane, con un atto di coraggio, abbandonando gli sterili “corporativismi”.

    Ma ritorniamo all’evoluzione della storiografia del Confine Orientale.

    Trovo significativo che dopo Valdevit, a dirigere il completamento della transizione della ricezione storica nazionale del confine orientale dalla prima alla seconda repubblica, sia stato chiamato il democristiano Raoul Pupo. In uno scenario in cui il comunismo era ormai morto ovunque, al vecchio antifascismo, ormai logoro e inservibile politicamente, si affiancò l’anticomunismo sopravanzandolo in termini di urgenza. Di questi mutamenti, politici – sottolineo – non storiografici, mi interessa relativamente e nella misura in cui si sono ripercossi sulla mia terra, quel confine orientale su cui si continua a giocare per ridefinire la nazione. Pupo ha di fatto imposto una precisa chiave interpretativa al tema, basata su una “serena” e “pacificata” condanna del comunismo e dell’esperienza storica della Jugoslavia socialista sul quale cercare un’intesa anche transfrontaliera. Io nelle mie FAQ, tra le altre cose, mi sono posto semplicemente un dubbio: c’è qualcosa che non torna in questa criminalizzazione dell’ex-Jugoslavia da parte italiana (per gli sloveni e per i croati è tutto un altro paio di maniche ovviamente) che sopravanza sempre una “serena” disamina dei propri crimini di guerra che a mio avviso rimangono ben più evidenti (ciò non cancella i crimini successivi di parte avversa, sia ben chiaro), sembra peraltro che questa condanna preceda addirittura i documenti e la ricerca, qual è il suo significato? Ma ecco che solo sollevare qualche dubbio su una condanna che si vorrebbe “serena” e “multilaterale” mi espone al getto di cemento: sono un jugonostalgico o un filo-jugoslavo o un militante vetero-comunista (di non si sa bene quale linea, date le giravolte di PCI, PCTLT e soci che hai giustamente sottolineato). Mi fai la predica sul fatto che non si possono mettere i buoni da una parte e i cattivi dall’altra ma mi pare che questo sacrosanto precetto nel tuo discorso valga per tutti tranne che per i partigiani jugoslavi, invariabilmente i cattivi della vignetta (mentre i cattolici e i “moderati” sono spesso gli eroi senza macchia).

    Il tuo “cemento liquido” e le tue “granitiche certezze” sulle mie appartenenze politiche ti hanno però impedito di notare che tra i tre testi da me suggeriti ho citato Materada di Tomizza: la storia di un istriano inizialmente convinto di potersi ritagliare uno spazio di vita onesta per sé e la propria famiglia sulla sua terra, nell’ambito dell’amministrazione socialista Jugoslava. Dopo averle provate tutte il protagonista capisce però che ciò è impossibile e sceglie la via dell’esodo. Non è proprio una narrazione filo-jugoslava o filo-comunista se ci pensi, personalmente sono anzi persuaso che perlomeno nella prima fase della sua esistenza la Jugoslavia socialista fosse un paese pressoché invivibile, sia per ragioni politiche che economiche (e un paese attraversato da una sotterranea guerra civile raramente offre un clima mite), sono convintissimo che gli esuli abbiano avuto buonissime ragioni per andarsene, fascisti, comunisti, cattolici o anarchici che fossero. Ti dirò di più, sono contento che i miei nonni e mio padre se ne siano andati, anche perché – molto banalmente – altrimenti non sarei nato. Sono convinto che ci siano state valide ragioni anche per rimanere però. Si trattò, come ho detto, di una scelta, per alcuni più obbligata per altri meno. Ho letto Ferrara-Pianciola e ho letto anche Esodi di Cattaruzza-Dogo-Pupo, pur ritenendoli dei testi pregevoli ho trovato l’inclusione dell’esodo istriano fra espulsioni e scambi di popolazione una forzatura politica facilmente ascrivibile, nel secondo caso, al patrocinio dell’IRCI al convegno. Il concetto di “pressioni ambientali” a cui si ricorre per giustificare questa inclusione a mio avviso dovrebbe spingere a classificare quel preciso fenomeno migratorio in un’altra categoria, magari la stessa dell’esodo dimenticato dalla Venezia Giulia nel primo dopoguerra, sicuramente meno cospicuo ma anch’esso maturato in un clima di ostilità “ambientale” non meno virulenta, anzi.

    Io ho studiato Interculturalità, corso di laurea disastrato e abortito, ma che se non altro mi ha lasciato in dote l’importanza della mediazione culturale e del valore che allo scopo acquisisce il concetto di meticciato. Questa è la mia militanza culturale che temo esca del tutto dal tuo radar a giudicare dal linguaggio semplificante che usi nel contrapporre istriani a slavi o nel ridurre la complessità dell’identità alla trita dicotomia volontarismo – etnicismo. Ovvio che con queste premesse tu non colga l’assunto fondamentale del mio discorso: l’invito che rivolgo agli istriani a riscoprire tutte le proprie radici. Si soffre in quanto esseri umani, non in quanto italiani o sloveni o croati. Ti sembrerà forse un discorso utopico ma secondo me i tempi sono maturi per introdurre ua nuova voce fra gli “eredi” dell’esodo, che peraltro conta già diverse adesioni come Sergio Fumich, Franz Baraggino, Adriano Moratto. Le minacce nazionaliste che di nuovo si riaffacciano in questo momento storico spingono i soggetti consapevoli delle aree mistilingui (ma siamo tutti meticci, ricordiamolo) a cercare nuove forme di identità – concetto mobilissimo – ti segnalo una interessante realtà che si chiama proprio Forum Tomizza ed è diretto da Milan Rakovac, nato Emiliano Racozzi, figlio di quel Joakim che ho menzionato nelle mie FAQ. Siamo in molti a immaginare un’Istria non più divisa su sterili linee nazionalistiche, del tutto inutili e anzi nocive per il territorio e la sua cultura.

    Chiaramente questa impostazione mi pone agli antipodi di quel piano di rinascita dell’identità nazionale che non si capisce per quale ragione debba compiersi sempre sulla testa degli abitanti del confine orientale e che trovo assurdo che debba coinvolgere ancora una volta gli istriani. Questo è il sunto del mio messaggio ai miei “conterranei”: siamo stati presi di mezzo per un secolo, siamo stati presi abbondantemente per il culo fino a qui, sottraiamoci a questo gioco. Un gioco verso il quale la tua analisi mi sembra invece sia molto condiscendente, al prezzo di altrettante omissioni e “certezze granitiche” non meno discutibili di quelle che imputi al mio discorso.
    Ne faccio un elenco:

    1) attribuire alla “destra in doppiopetto” berlusconiana tutta la responsabilità degli aspetti mistificanti del Giorno del Ricordo mi pare svicolare sull’aspetto fondativo che il “martirologio” del confine orientale ha avuto per l’allora costituendo PD e soprattutto per la sua ideologia di “Partito della Nazione”. Il collage di immagini che apre l’articolo è (frettolosa) opera mia, fra i manifesti di Casapound e Forza Nuova spiccano Bersani e Napolitano con dichiarazioni del tutto in linea con quelle delle formazioni neofasciste. Tra le mie “semplificazioni” si potrebbe rilevare che la legge che istituisce il giorno del Ricordo non fu “scritta” da Menia (come ben analizza Federico Tenca Montini nel suo libro), ma fu il frutto di emendamenti alla proposta di legge di Menia a cui contribuirono gran parte delle forze politiche parlamentari di allora, tra le quali consistenti erano le compagini che avrebbero dato corpo di lì a qualche anno al partito democratico.

    2) Trovo fin troppo edulcorata la tua interpretazione delle rivendicazioni dei “diritti italiani” da parte del governo De Gasperi come mero argine politico al revanscismo, soprattutto trovo reticente non menzionare che questo presunto argine politico a destra sia decisamente venuto meno nei successivi governi Pella e, soprattutto, Tambroni – dove semmai l’argine era a sinistra. So che su questa linea di faglia e su questi argini tu imposti una tua precisa lettura che peraltro, in certi dettagli, lascia perplessi anche altri accademici (nella fattispecie ho assistito alla diversità di vedute con Anna Millo alla vostra conferenza in merito alla Rivolta di Trieste – com’è ovvio e giusto che sia, il mondo accademico non è monolitico, non ancora perlomeno)

    3)Inaccettabile è per me la tua idea che la continuità con la mentalità del passato nel dopoguerra italiano sia stata inevitabile. Non dico che in Germania e in Francia il trapasso sia stato facile ma mi pare che gli esiti siano stati molto diversi. Non raccontiamoci balle, se c’è volontà politica se ne esce e non attribuiamo l’assenza di questa volontà a vaghe difficoltà congiunturali.

    4) Il Trattato di Osimo come nuova giornata del ricordo da parte mia era chiaramente una provocazione, in realtà non sono sicuro che l’istituzione di ricorrenze nazionali sia una soluzione anche per quanto riguarda la Shoah. Però è curioso: secondo te siccome anche il 10 novembre non sarebbe esente da strumentalizzazioni (e lasciamo stare la parola “altrettante” per cortesia, sappiamo che non è così) allora teniamo il 10 febbraio che di connotazioni politiche ne è saturo?

    5) Sono felice che il Giorno del Ricordo ti offra nuove occasioni di svolgere il tuo lavoro e di assumere incarichi e oboli più che meritati, ma non capisco come tu non riesca a notare il panorama attorno. Non capisco come tu non riesca a guardare oltre i villaggi Potemkin che evidentemente hai visitato per vedere la situazione reale delle scuole e delle mistificazioni che essi sono costretti a bere, se già le alte cariche istituzionali le ripetono.

    6) Non vorrei a mia volta “cementarti”, ma in parte è inevitabile. Non posso non notare che le tue considerazioni positive sul Giorno del Ricordo riecheggiano lo scritto di Pupo La luna non ha solo una faccia scura. Qualche riflessione su storici italiani e Giornata del Ricordo in cui si prende distanza dalle speculazioni delle destre per dire che che dopotutto è grazie al 10 febbraio che gli specialisti di storia hanno diffuso la buona conoscenza del 10 febbraio. Sono felice che molti si siano trovati un lavoro ma resta da chiedersi se gli attriti al confine italo-jugoslavo abbiano effettivamente tutta questa centralità per la storia nazionale ed europea

    7) Trovo inaccettabile declassare a semplice “bonifica etnica”, come quella della snazionalizzazione nella Venezia Giulia nel ventennio, l’escalation di crimini di guerra di cui l’esercito italiano si macchiò a seguito dell’invasione della Jugoslavia, non solo alla luce della natura di questi crimini, che interessò indiscriminatamente tutta la popolazione falciando donne, vecchi e bambini, deportando interi villaggi e “ripulendo” intere zone, ma anche alla luce delle circolari, degli ordini e pure dei programmi e delle proposte per fortuna rimasti inattuati, come quella di deportare l’intera popolazione “alloglotta” in germania di Libero Sauro o dei deliranti programmi di eugenetica per bonificare la dalmazia dall’elemento slavo di Alfredo Vittorio Russo….

    8) Trovo fuori luogo in questa discussione citare la fase “idealistica” dell’irredentismo persasi quasi completamente per strada già ben prima della vigilia della Grande Guerra, figuriamoci dopo il passaggio del fascismo che si appropriò del tutto del fenomeno. Idealisti che continuarono a rivendicare questo irredentismo ce ne furono anche dopo, ma ben isolati. Trovo anche inopportuno servirsi, perdona il linguaggio, del culo di personalità nobili (come spesso si usa Gabriele Foschiatti, ad esempio) per dispensare dalle critiche tutta una zona grigia che con Foschiatti e gli antifascisti morti e perseguitati ben poco ci azzeccano, minimizzando certi squallidi intrallazzi. L’opzione anti-jugoslava era sicuramente legittima, non mi sembra di aver giustificato l’epurazione su questa base (e personalmente non giustifico, ma cerco di capire, anche le esecuzioni dei fascisti) ma presentare questi soggetti indistintamente come pacifici e immacolati antifascisti non mi sembra corretto, e a quanto ne so i contatti con milizie territoriali e collaborazionisti si spinsero ben oltre di quanto delinei nel tuo commento.

    9) Dici che Porzus fu l’unico caso di scontro in armi tra comunisti e “badogliani” ma proprio “il tuo amico” Pirjevec in Foibe, a pag. 80 parla di cinque garibaldini uccisi da osovani non appena diffusa la notizia della loro adesione al 9° Korpus

    10) Mi congratulo con te se dietro la messa a disposizione online di “Storia di un esodo” c’è il tuo contributo (il link a Google Libri l’abbiamo messo fin da prima della pubblicazione del presente articolo, era segnalato già nei commenti e nei tweets inerenti al precedente post di Wu Ming 1 sul vittimismo), però scusa, possiamo tacere della scarsa fortuna di quel testo e di buona parte dei suoi autori? Possiamo tacere sul fatto che a tutt’oggi sia un testo abbastanza negletto?

    In generale i tuoi appunti storici li ho apprezzati molto, Diego, ci mancherebbe che non apprezzi l’intervento di un professionista. Hai ragione: mi sono dimenticato della commissione italo-slovena, credimi che è stata proprio una svista, l’avrei volentieri inserita nella domanda sul presunto silenzio, anche perchè il silenzio continua a essere molto ed il chiasso del Giorno del Ricordo non aiuta a dipanarlo. Avrei dovuto mettere un sacco di testi per una bibliografia completa, tra cui anche l’importante Esuli a Trieste di Sandi Volk, ma mi sembra di essere stato abbastanza chiaro: erano solo consigli personali per iniziare.

    Hai ragione sulle foibe istriane, ho parlato troppo frettolosamente di jacquerie, fu anche altro, lo so, ma il fatto che in un secondo momento vi fu violenza politica non esclude che sia stata ANCHE jacquerie e in una prospettiva “esodocentrica” quale dei due aspetti ha veramente inciso a livello psicologico sulla popolazione? Secondo me la jacquerie. Perché è a questa che è ascrivibile l’uccisione di commercianti, le violente rivalse personali, i casi di violenza sulle donne che di sicuro ben poco c’entrano con la lotta di liberazione. Forse sono stato riduttivo nel parlare di “atti teppistici” nel dopoguerra (ma d’altronde ho descritto la natura di quelle intimidazioni) e a non chiarire la natura “organizzata” di molti di questi atti, organizzata non significata però pianificata e condivisa. Effettivamente la frase sul “tifare asse” in merito alla tematizzazione dell’espansionismo slavo non è fra le più felici, il concetto merita di essere esposto in termini migliori. Il mio giudizio morale però non è soltanto tale, distinguere fra imperialismo e obiettivi nazionali del movimento di liberazione è anche una questione di chiarezza storica, proprio come è importante dire che CLN e Fascisti erano due cose distinte, nonostante le indubbie zone grigie (assenti invece fra collaborazionisti jugoslavi e partigiani).

    In generale ho parlato troppo frettolosamente delle violenze “dall’altra parte”, le indubbie violenze consumate in nome della Jugoslavia socialista di cui sono ben consapevole (si potrebbe anche parlare di cose veramente orrende come i processi e le 11 fucilazioni di ex-deportati nei campi nazisti nel dopoguerra), doveva essere il materiale della 25° domanda ma non mi sento ancora pronto per scriverla. Per quanto meticcio, consapevole delle mie ascendenze slovene e croate, appartengo pur sempre al gruppo nazionale italiano, non posso fingere altrimenti e d’altronde questo testo è scritto in italiano e si rivolge ad italiani. Per cui non ho fatto altro che applicare un sano principio che Marcello Flores espresse al convegno Storia e Memoria di Trieste di due anni fa, grossomodo: ogni nazione, prima di denunciare i crimini subiti dal vicino, ammetta prima i propri crimini. Ammissione che in Italia non mi pare sia mai avvenuta. Per questo esorto i figli di questa terra lacerata di chiedere conto di quei crimini, per poter realmente parlare di ogni sofferenza, adeguatamente inserite fra le tante sofferenze di quell’epoca, senza più correre il rischio di essere alla mercé del clima politico del momento.

    Prenderò debita nota dei tuoi appunti, Diego, il testo che leggi è in continua elaborazione nel mio blog laboratorio Terre Rosse. Non solo accolgo positivamente l’incursione dell’accademia nella persona di un giovane ricercatore, ma anzi mi auguro che simili “professionisti” inizino presto a praticare, a dimostrazione di equanimità, tutte le sedi in cui si diffondono stime irrealistiche e ricostruzioni inattendibili.

    • Ciao Lorenzo. Ero certo che il confronto sarebbe stato costruttivo, magari con qualche punta polemica, ma è il sale della vita. Ne sono contento perché dimostra che ci si può parlare e che probabilmente sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono. Non volevo incasellarti e se ti pare che lo abbia fatto me ne scuso. Diciamo che in vari passaggi hai utilizzato argomentazioni tipiche di una corrente storiografica alla quale mi è parso che tu ti sia abbeverato più che ad altre. E diciamo che ogni tanto ho preso quella per bersaglio, se proprio…

      Il tuo intento di fondo è più che apprezzabile: la rimozione delle falsità storiche e delle omissioni che ci vengono propinate. Ho apprezzato appunto di meno qualche passaggio in cui mi sei parso scivolare in un vizio simile e capisco che a tua volta tu ne attribuisca a me. Diverse cose le hai limate alla fine del tuo secondo intervento e devo dire che le posizioni mi sembrano più vicine. Anch’io farò qualche limatura sulla base delle tue osservazioni.

      Un po’ di precisazioni.

      Su Valdevit-Miccoli. Quello di Valdevit è stato in effetti un cambiamento di prospettiva basato sulla possibilità di lavorare tanto in un diverso clima politico, quanto di disporre di nuovi strumenti interpretativi introdotti dalla storiografia. È come dire che in un laboratorio arrivi un nuovo e più preciso microscopio elettronico, credo. E Valdevit ha attinto appunto a nuove categorie. Se sapesse del tuo accostamento a Violante, non sono convintissimo che la prenderebbe bene.
      Contesto però l’idea di un piano preordinato: «Dopo Valdevit è stato chiamato Pupo». Al netto di quanto si pensi delle sue ricostruzioni, chi l’avrebbe chiamato? La destra? La Dc che si era liquefatta molti anni prima? La Lista per Trieste che non sapeva manco come fosse fatta la storia, Cecovini a parte? Chi sono i burattinai? Davvero questi storici mainstream hanno sottovalutato i crimini italiani? Oppure delle loro ricostruzioni si è preso quello che al dibattito pubblico/politico faceva comodo, senza che potessero fare molto per riequilibrare i media?
      Contesto anche siano stati Valdevit e Pupo a introdurre la serena condanna del comunismo. Sempre sul piano della storiografia italiana, ci erano già arrivati Schiffrer e Apih, venuti prima di Miccoli e attivi in contemporanea a lui.
      E contesto inoltre che presunte «scuole» condannino in toto la Jugoslavia, perché anche in questo caso le cose sono semplicemente più complesse. Con Belgrado la Dc e il Psi – nazionali e locali – cominciarono a dialogare con i Balcani negli anni Sessanta…

      Ammesso e non concesso che si possa parlare di «criminalizzazione» da parte degli storici mainstream (boh, mi pare fuori contesto pensare che un qualsivoglia storico «criminalizzi» qualcosa – quale Jugoslavia starebbero criminalizzando? Quella stalinista del dopoguerra, quella vicina all’Occidente contro voglia nel post 1948, quella in riavvicinamento all’Urss, quella non allineata dei Sessanta, quella che tenta l’autoriforma nei Settanta o quella in ginocchio degli Ottanta? Ancora una volta: è più complesso e ancora una volta la domanda è come trasmetterlo.

      Non ti ho dato del jugonostalgico o del comunista. Ho sempre discusso delle tue interpretazioni né ho una visione così negativa della resistenza jugoslava. Rispetto l’afflato di liberazione e di cambiamento che si portava dentro la base partigiana. Mentre credo che il fascismo abbia applicato ben più che una pressione ambientale: la situazione della minoranza italiana in Istria, al di là delle memorie che sono memorie – sia stata ben più lieve di quella toccata in sorte agli sloveni e ai croati durante il Ventennio.
      Non so poi se Pianciola – che mi pare insegni a Honk Kong, tanto per relativizzare la centralità delle cose – abbia avuto un interesse politico a offrire delle categorizzazioni utili a raffinare i criteri interpretativi.

      Evviva il meticciato istriano, evviva davvero. Adoro l’Istria, la frequento spesso, ne adoro la parlata, la mescolanza, le isole linguistiche, i paesi dell’interno semiabbandonati ma dove qualcuno ancora resiste e, mentre taglia l’insalata sull’uscio di casa, a precisa domanda risponde di sentirsi solo istriano. Sono un convinto euroregionalista e quindi la faccenda non scompare dal mio radar anzi. Però, non è in nome del meticciato che si è compiuta la rivoluzione jugoslava nell’area istriana. Il progetto nazionale croato e quello sloveno erano una cosa diversa e i dei piani vanno distinti. Leggerò il forum Tomizza, che non conoscevo, perché un Istria meticcia e fuori dalle contrapposizioni nazionali è anche la mia speranza.

      2. Non ho parlato di Pella ma concordo con la tua analisi. La diversità di vedute con Anna Millo è su un passaggio preciso – quello del rapporto fra governo e uso della violenza – ma non direi sull’interpretazione di fondo delle vicende. Semplicemente, in mancanza di materiale documentario più consistente non mi sento di affermare che il governo italiano provocò deliberatamente gli scontri di piazza del 1952 e 1953. Ma sul resto c’è pieno accordo e allora non esaspererei le differenze. Le mie ricostruzioni evidenziano i cedimenti democratici del governo. De Gasperi durante le trattative di pace deve misurarsi con la mentalità nazionalista e ancorata alla politica di potenza non solo dell’opinione pubblica, ma di molti funzionari del governo. E certamente anche De Gasperi asseconda certe tendenze nell’emergenza, avallando ad esempio i metodi dell’Ufficio per le zone di confine. Mi sembrava off topic e non ne avevo parlato.

      3. Le transizioni sono fenomeni come la pioggia e la nebbia. Non si evitano, ci sono. Perché nella storia esistono snodi ma non tagli netti. Le continuità si possono certamente ridurre (ad esempio se ci fosse stata una vera epurazione) e in Italia non è stato fatto: potremmo parlare per altre tre settimane della continuità dello stato. Le continuità però non si possono rimuovere perché metodi e mentalità si consolidano negli anni. E nessuno ha negato che la volontà politica era quella di una rapida pacificazione, che mettesse la polvere sotto il tappeto.

      4. Concordo sull’inutilità delle celebrazioni, che diventano happening preconfezionati. Quanto alla mia posizione su Osimo, sbagli bersaglio: ne sarei stato il primo fautore, allora, con dubbi esclusivamente sulle modalità di decisione ed elaborazione della Zona franca industriale sul Carso, per ragioni di ambiente e di mancato coinvolgimento della periferie nelle scelte di sviluppo economico del territorio.

      5. La situazione delle scuole la conosco e ne ho parlato in risposta a Tom. Fa parte degli aspetti su cui si dovrebbe intervenire con forza. Senza alcun dubbio. A parziale discolpa, posso dire che l’Istituto cui appartengo fa molto nelle scuole, anche se non scommetterei che la sua attività ti appaia esente da mistificazioni, dato che le linee di lettura sono più o meno le mie.

      6. Questo punto è meraviglioso: non ho mai nemmeno sentito parlare dello scritto che mi citi, anche se il nostro rapporto di collaborazione è noto e pubblico. Continuo comunque a dire che sia innegabile – lascia perdere poi quali siano stati gli esiti nefasti sul discorso pubblico – che il 10 febbraio ha riportato in auge la vicenda del confine orientale, che è piccola cosa rispetto al molto altro accaduto in Europa, ovviamente. Semplicemente queste terre hanno una sorta di valenza da laboratorio, visto che qui si è riprodotto in piccola scala tutto il dramma novecentesco. Aggiungerei che con queste faccende nessuno ha trovato un lavoro o fatto fortuna…

      8. Ho parlato di bonifica etnica in merito alle politiche del fascismo di confine. Spesso uso il più asettico nazionalizzazione/snazionalizzazione. L’occupazione della Slovenia è un’altra storia e i crimini di guerra italiani sono esecrabili e orrendi: continuo a pensare che l’ultimo libro di Focardi su questo sia molto importante. Orribile e inquietante è pensare che Libero Sauro fu libero di riciclarsi nell’Anvgd e farsi ricevere pure dal Presidente della repubblica, fra le proteste degli stessi Dc triestini, che in quella fase non erano proprio un esempio di depurazione dall’iperpatriottismo… Resto comunque dell’idea che non si possa parlare di pulizia etnica per le politiche del fascismo di confine, anche se mi rendo conto che sono diatribe d’accademia, dal tuo punto di vista. Soprattutto, non capisco perché si neghi (giustamente) la formula per il caso istriano e la si applichi invece per il trattamento del fascismo agli slavi, fermo restando che i due fenomeni sono ancora diversi fra loro.

      8. Quella sull’irredentismo era solo una puntualizzazione da secchione. Mi pare chiaro che già alla vigilia della Prima guerra l’irredentismo fosse un’altra cosa e infatti parlavo dell’Ottocento. L’irredentismo democratico sparì – ad esempio con l’ultimo Slataper – e chi vi si rifece dopo, Schiffrer ad esempio, aveva sua volta grande diffidenza verso gli sloveni. Pesava in fondo il lungo periodo dell’idea risorgimentale di nazione, che voleva la liberazione dei popoli ma faticava a capire che ai confini le nazioni sono mescolate ed è un problema separarle.
      Sui cedimenti del Cln giuliano a Salò. Se ci sono elementi che ti spingono a parlare di un «ben oltre», ti prego di metterli sul tavolo perché non li conosco e mi fa piacere imparare qualcosa di nuovo, pronto anche a cambiare punto di vista se è il caso. Con le carte che conosco e le cose che ho letto, posso dire – forse un po’ cinicamente – che si è trattato di ipotesi tattiche e fugaci, in un contesto di guerra, quando non è raro che si mercanteggi col nemico. E ad ogni modo, non mi risulta si sia andati fino in fondo. Se poi per zona grigia intendi Pagnini e Coceani, quella è stata nera come il carbone per quanto mi riguarda. Mentre giù sulla Guardia civica inviterei a vedere le tante motivazioni che portavano la gente lì dentro. Fra cui una delle più classiche: salvarsi il culo.

      9. I partigiani della Osoppo non erano tutti «badogliani». E non intendevo piegare Porzus al senso che hai attribuito: anche il tuo esempio – che conoscevo e che vale per le memorie opposte – va a sua volta benissimo per dimostrare che c’era un picco di inimicizia e tensione. Sull’evoluzione delle Brigate Osoppo ho anch’io un giudizio pesantemente negativo della compresenza di antifascisti e neofascisti nelle squadre paramilitari.

      10. Boh, io Storia di un esodo l’ho trovato nelle librerie di quasi tutti i dirigenti della Dc che ho intervistato durante passati lavori. Ecco perché non mi pare così negletto. Oggi semplicemente è un testo datato, ma lo trovo una miniera incredibile di informazioni e ancora imprescindibile per approfondire…

      Pensi davvero che la popolazione era lì a chiedersi se era jacquerie o violenza di stato. Si presero tutti una gran strizza e basta. Mettici il martellamento della «barbarie slava» e il gioco è fatto. Gli atti di violenza non erano condivisi dal centro di Belgrado, ma i vertici locali avevano già una lettura diversa dei rapporti con gli italiani. E non era tutto rose e fiori.

      Sulla tua chiosa, hai il mio pieno rispetto. E se sono intervenuto qui è proprio perché credo che sia possibile intenderci, mentre ciò non può avvenire con gli alfieri del Giorno del ricordo. Quanto a me, credo di sposare abbastanza il tuo rifiuto della corporazione. Altrimenti non sarei qui a scrivere…

  26. Ecco un esempio di come agisce all’interno dell’istituzione scolastica sto cazzo di frame di cui stiamo parlando. Si tratta della traccia di storia alla maturità 2010:

    Maturità 2010 – TIPOLOGIA C: Ai sensi della legge 30 marzo 2004, n. 92, “la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. Il candidato delinei la “complessa vicenda del confine orientale”, dal Patto (o Trattato) di Londra (1915) al Trattato di Osimo (1975), soffermandosi, in particolare, sugli eventi degli anni compresi fra il 1943 e il 1954.

    Già la traccia comincia con le parole “ai sensi della legge”, e immagino che lo studente si sia domandato se per caso dovesse mandare una copia cc del tema alla questura (disclaimer per il compagno brigadiere che ci sta leggendo: trattasi di battuta).

    Ma a parte questo: gli esperti del ministero, mettendo come cappello il testo della legge istitutiva del “giorno del ricordo”, hanno di fatto avvertito gli studenti: guardate, per legge questo tema va svolto in un certo modo, ponendo come centrale nello scenario della “complessa vicenda del confine orientale” la “tragedia degli italiani” e il nesso foibe-esodo. Si chiede esplicitamente di trattare in particolare il periodo ’43/’54. Guarda caso: come ha scritto WM1 nel post sul vittimismo, la storia si fa cominciare dov’è più comodo. Evidentemente il periodo ’41/’43, l’invasione della Jugoslavia, la circolare 3C, Rab, ecc., non sono considerati tanto importanti nella “complessa vicenda del confine orientale”. Ok ok, il tema chiede di considerare più in generale il periodo ’15/’75, Patto di Londra/Osimo… un po’ di fumo non guasta…

    E infatti il risultato si può ammirare qua:

    http://web.archive.org/web/20150216130234/http://appunti.studentville.it/appunti/prima_prova_2010-173/giorno_del_ricordo-4550.htm

  27. @ tuco
    In realtà la cosa è un po’ più complessa. Quella traccia (io ero commissario d’esame “in trasferta”) era, sul piano didattico, inaffrontabile: come rilevi tu, la prima parte è un cappello che orienta il senso del tema da svolgere – devi dire così e cosà (e lo studente si chiede: come la penserà il commissario esterno? e se poi si indispone? mmm… meglio fare altro…).
    La seconda parte, invece, non è fumo negli occhi, ma contiene i parametri di riferimento per la valutazione. Se non ché, nessun programma scolastico va così in profondità da dettagliate quei trattati in modo tale da poterne fare argomento – è un argomento troppo specifico, richiederebbe un approfondimento ad hoc (un approfondimento dell’approfondimento). Anche l’arco temporale richieso è troppo ampio, non è un mistero che i programmi fatichino ad arrivare alla contemporaneità. E infatti il temino che linki, se fosse vero, sarebbe al di sotto della sufficienza (non sto a spiegarti perché, ma fidati). Risultato: quel tema non lo svolse pressocché nessun maturando (a livello nazionale). Nel liceo dov’ero commissario io, nelle due classi che esaminai nessuno (in tutto il liceo credo uno soltanto): e sì che avevano dedicato alcuni spazi di approfondimento all’argomento, nel corso dell’anno. Nota di colore: non ci provò neanche uno studente il cui curriculim familiare (padre, nonno, bisnonno) risaliva senza deviazioni politiche fino agli agrari che fondarono del fascio locale, passando per le segreterie di AN e del MSI.
    Mi dirai: ma qual è il senso di dare un tema di fatto inaffrontabile? Una voce maligna mi suggeriva, nei giorni successivi: quello di legittimare le lagnanze – indovina di quale provenienza politica – sui docenti di storia, accusati di non aver trattato l’argomento a dispetto dela giornata del ricordo, non essendoci (secondo questi signori) altra spiegazione sullo zero virgola di temi a contenuto storico.

  28. Guardate un pò che tema mi sono trovato a dover svolgere io alla mia maturità, anno scolastico 2002-2003. Notare la completa edulcorazione dei crimini fascisti, questo si è negazionismo. Ricordo ancora la faccia di una mia compagna di classe (per nulla di sinistra del resto) che legge ‘sta roba, si volta verso di me e mormora “e Matteotti?!”. La cosa che ancora mi fa girar le palle è che presi 14/15 perché “andai fuori tema” parlando dei campi di sterminio fascisti in Libia, che secondo i prof. erano “normali” repressioni coloniali.
    Buona lettura:

    3. Ambito storico-politico
    Argomento: Il terrore e la repressione politica nei sistemi totalitari del Novecento

    DOCUMENTI

    Scheda:

    Il fascismo italiano fece centinaia di prigionieri politici e di confinati in domicilio coatto, migliaia di esiliati e fuoriusciti politici.

    Il nazismo tedesco dal 1933 al 1939 ha eliminato circa 20.000 oppositori nei campi di concentramento e nelle prigioni; tra il 1939 e il 1941 ha sterminato nelle camere a gas 70.000 tedeschi vittime di un programma di eutanasia. Durante la guerra si calcola che siano stati uccisi circa 15 milioni di civili nei paesi occupati, circa 6 milioni di ebrei; 3.300.000 prigionieri di guerra sovietici, più di un milione di deportati e decine di migliaia di zingari sono morti nei campi di concentramento; più di 8 milioni sono stati inviati ai lavori forzati.

    Nella Russia comunista la prima epurazione la pagarono gli iscritti al partito; tra il 1936?38 furono eliminati 30.000 funzionari su 178.000; nell’Armata rossa in due anni furono giustiziati 271 tra generali, alti ufficiali e commissari dell’esercito. Nei regimi comunisti del mondo (URSS, Europa dell’Est, Cina, Corea del Nord, Vietnam, Cambogia, Cuba, ecc.) si calcola che sono stati eliminati circa 100 milioni di persone contrarie al regime.

    Né bisogna dimenticare le “foibe” istriane e, più di recente, i crimini nei territori della ex Jugoslavia, in Algeria, in Iraq, ecc. Amnesty International ha segnalato 111 Paesi dove sono state applicate torture su persone per reati d’opinione.

    “Con il terrore si assiste a una doppia mutazione: l’avversario, prima nemico e poi criminale, viene trasformato in ‘escluso’. Questa esclusione sfocia quasi automaticamente nell’idea di sterminio. Infatti la dialettica amico/nemico è ormai insufficiente a risolvere il problema fondamentale del totalitarismo: si tratta di costruire un’umanità riunificata e purificata, non antagonista […]. Da una logica di lotta politica si scivola presto verso una logica di esclusione, quindi verso un’ideologia dell’eliminazione e, infine, dello sterminio di tutti gli elementi impuri”.
    S. COURTOIS, “Perché?”, in Il libro nero del comunismo, Milano, Mondadori, 2000

    “Per genocidio si intende uno qualunque dei seguenti atti, commessi con l’intenzione di distruggere completamente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale: a) assassinio di membri del gruppo; b) grave attentato all’incolumità fisica o mentale di membri del gruppo; c) imposizione intenzionale al gruppo di condizioni di vita destinate a provocarne la distruzione fisica totale o parziale; d) misure volte a ostacolare le nascite all’interno del gruppo; e) trasferimenti coatti dei figli di un gruppo a un altro”.
    Convenzione delle Nazioni Unite del 9/12/1948

    “Dolore per la nostra patria [il Cile] soggiogata e convertita in un immenso carcere; per il nostro popolo martoriato dalla fame e dalla miseria; per i nostri compagni ed amici caduti nel combattimento, o assassinati, torturati o incarcerati dal fascismo. Speranza che questo incubo di orrore avrà una fine non lontana, e la certezza che i colpevoli riceveranno il castigo esemplare”.
    C. ALTAMIRANO, “Saluto di capodanno: I gennaio 1975”, in Tutte le forme di lotta, Milano, 1975, (L’autore era segretario generale del Partito socialista cileno)

    “I regimi totalitari del XX secolo hanno rivelato l’esistenza di un pericolo prima insospettato: quello di una manomissione completa della memoria”.
    T. TODOROV, Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Milano, Garzanti, 2001

  29. Certo, Wu Ming, che sei davvero levantino! Sono qui da giorni a sproloquiare e su Twitter ho sempre avuto meno spazio dei tuoi commentatori di serie. Così mi dicono, perché twitter non lo uso. E mi dicono anche che oggi mi hai nobilitato al rango di storico perché, fra mille cose, hai trovato tre aggettivi che ho attribuito allo spettacolo di Cristicchi in un ragionamento di pagine e pagine.

    • Perché, non sei uno storico? Noi ti abbiamo sempre ritenuto tale. Il tuo giudizio misurato ma chiarissimo su Magazzino 18 ha colpito molti e ha pochi precedenti da parte di storici – tagliamo con l’accetta – dell’ambiente Pupo – IRSML. Pupo ha addirittura fatto endorsement dello spettacolo pur sapendo benissimo che contiene un falso eclatante e comprovato, ovvero la dichiarazione di Gilas, che Pupo stesso nel 2006 definì a chiare lettere “una bufala”, sulla base delle ricerche di Nevenka Troha. Leggendo la tua sintesi su Magazzino 18 più di un lettore è dunque sobbalzato sulla sedia. Valeva la pena linkarla su Twitter…

      …come spesso facciamo coi commenti che hanno un particolare “guizzo”, una scintilla, un elemento ben visibile di chiaro interesse. Nei 140 caratteri si è dovuto condensare, ma il link riporta al tuo commento e quindi alle tue affermazioni testuali ed esatte. Se a distanza di qualche ora sei ancora d’accordo con te stesso, la cosa non dovrebbe crearti particolare imbarazzo… O ci siamo persi qualcosa?!

      • A proposito: in questi giorni su Twitter tu hai avuto non meno ma molto più spazio di tutti gli altri commentatori. Ogni commento su Giap, senza eccezioni, viene segnalato in automatico su Twitter, via feed. Tu sei quello che ha lasciato più commenti, quindi hai avuto più segnalazioni. Poi noi, in una settimana di discussione, abbiamo aggiunto tre segnalazioni “manuali”, cioè non automatiche: la risposta di Filipaz ai tuoi vari commenti; il primo commento di Sandi; il tuo commento di cui stiamo parlando.
        Insomma, i tuoi amici su Twitter sono piuttosto disattenti…

    • Sul frame è andata male, D’Amelio, ma sul Levantino va ancora peggio. Ti riferisci impropriamente a una comunità italiana da secoli in Turchia Italo-levantini, a un dialetto della lingua araba Arabo levantino o a una regione geografica Levante?
      Oppure, semplicemente, stai usando quella parola in modo approssimativo, se non razzista? Dire a qualcuno che é un *levantino* e connotare il termine in maniera negativa é roba non all’altezza di un dibattito che – seppur aspro – si era finora mantenuto corretto e interessante.
      Facciamo attenzione per favore (e dire sempre ‘eh ma io scrivo di fretta’ non dovrebbe essere una scusante).

      • Volevo essere solo ironico e gergale, nient’altro. Accusarmi di razzismo è davvero risibile, ma ammetto di essere scivolato dal punto di vista del politicamente corretto. Prometto di non farlo più. Certo però che non ne perdonate mezza, eh?

  30. Per la verità mi riferivo proprio alle segnalazioni manuali, ma questo è davvero irrilevante.

    Chi si imbarazza? E’ semplicemente curioso che divento uno storico soltanto su un preciso passaggio che – diciamo – è funzionale ad avvalorare le tesi che portate avanti. Diciamo che estrarre solo quei pezzi è un po’ fuorviante rispetto all’impianto complessivo del mio pensiero, che alla questione Cristicchi ha aggiunto anche un paio di altre cosette in questa sede e nella discussione dell’anno scorso. Sullo spettacolo conosco diversi altri membri di questa compatta comunità immaginata – Pupo/Irsml – che non endorsano e che ritengono che la struttura narrativa sia tutta impostata a suscitare una reazione emotiva, solo che non sentono il bisogno di esternare né qui né altrove. Che poi, conoscendo il carattere e l’ironia di Raoul, credo che da un lato gli stiate gonfiando l’ego e dall’altro facendolo ghignare parecchio. Ritengo che nemmeno lui fosse consapevole di essere il Gran Burattinaio, ma glielo chiederò alla prima occasione.

    • Tutti i tuoi commenti sono stati segnalati e quindi, a chi ha voluto leggere, “l’impianto complessivo” del tuo pensiero dovrebbe essere ben noto, anche perché da te più volte ribadito in questi giorni. Ergo, il problema continuo a non capire dove stia.

      Non capisco nemmeno da cosa tu deduca che “prima” non ti considerassimo uno storico. Che tu sia uno storico è un’ovvietà, è come dire che il mio idraulico fa l’idraulico.

      Non riesco nemmeno a ritrovare il punto dove parlavo di “compatta comunità”, io ho scritto – premettendo pure che tagliavo con l’accetta – di “un’area Pupo / IRSML”.

      Quanto al fatto che Pupo “non endorsa”, voilà:

      Il numero di atmosfere dell’ego di Pupo mi interessa assai poco, e poco me ne cale anche degli eventuali sghignazzi. Mi incuriosisce un poco di più il fatto che uno storico accreditato, pur sapendo che “Magazzino 18” contiene – in posizione retoricamente strategica – un falso che egli stesso ha dichiarato tale, ne consigli la visione. Boh.

  31. Ma come? Siete tanto bravi (lo dico sul serio!) a dimostrare che danni possano fare le titolazioni e i lanci acchiappalettori sui giornali e poi, per quanto riguarda me, fate un lancio semplificante e ora rimandate a milioni di frasi da leggere?
    Comunque non è un problema e ribadisco quanto ho affermato. E infatti al posto di Pupo non avrei citato Magazzino 18, il che ti assicuro non mi pone fra i paria. Siamo uomini di mondo e accettiamo qualche differenza. E non è l’unica nelle nostre interpretazioni – ci sono provenienze generazionali e politiche che certamente incidono – ma la cosa non è che ci risulti così tremendamente insopportabile.

  32. Diego, il tweet riassume così la tua posizione su Magazzino 18:

    «quasi nulla sul fascismo; banalizza; orienta la vulgata criticata su Giap».

    Cliccando, uno può leggere le tue esatte parole, che sono:

    «il taglio dello spettacolo – quasi niente sul fascismo – ha contribuito a orientare la vulgata nel senso che dici tu. Poi se vuoi sapere che ne penso, credo sia in effetti molto banalizzante»

    Cioè hai scritto le stesse cose riportate nel tweet.
    L’unica nostra omissione è stata quel “molto” che precede “banalizzante”.
    Cioè, delle due, abbiamo ammorbidito il tuo giudizio sullo spettacolo.

  33. Ancora a proposito di falsi fotografici. Due siti in cui Belzec viene spacciato per foibe. Uno è un sito apertamente fascio, l’altro neutro.

    https://twitter.com/monster_chonja/status/565782733914664960

  34. Sono il nipote di padre Flaminio Rocchi, definito nell’articolo come “padre dei profughi istriani”. Mia madre, ancora in vita, è la sorella. Segnalo un’inesattezza nell’articolo.
    Padre Flaminio Rocchi non si è mai chiamato Anton Sokolic’ ma bensì Antonio Soccolich.
    Nato a Neresine (provincia di Pola) nel 1913 è figlio di Rocco e Viola Soccolich (esuli ad Ancona), quarto di altri sette figli: Alfredo (1907, esule a Genova), Rocco (1908, esule a New York), Maria (1911, esule a Roma), Viola (1917, esule a Trieste), Nives (1920, mia madre, esule ad Ancona), Giuseppe (1925, esule a Roma) e Alfio (1925, esule a Pesaro). Nessuno di questi ha mai conosciuto e parlato la lingua serbo-croata. Durante il periodo fascista decidono di cambiare il proprio cognome da Soccolich a Rocchi ad eccezione del figlio Rocco che sceglie di conservare il cognome originale.
    Antonio Rocchi a dodici anni entra in seminario a Venezia e a 37 anni prende i voti francescani e, secondo l’usanza francescana, cambia il proprio nome da Antonio a Flaminio.
    Chiedo pertanto una rettifica di quanto erroneamente riportato nell’articolo ((art. 8 legge 47/1948 sulla stampa).
    Giuliano Piccini, Ancona

    • Accogliamo senza problemi la Sua precisazione, che è stata segnalata e linkata anche su Twitter.
      Le segnaliamo – ma lo saprà già – che l’informazione sul cognome “Sokolic”, da Lei smentita e da noi rettificata, è riportata in molte fonti, ad esempio in questa scheda biografica di Suo zio Alfio.
      Ad ogni modo, la sostanza dell’argomentazione di Filipaz sui confini sfumati di identità e nazionalità in quella realtà multietnica e mistilingue rimane valida.

  35. @ Tom Trento
    Ti ringrazio per il tuo prezioso intervento, per il sostegno e la condivisione del mio contributo.
    Trovo encomiabile il tuo intento nel cercare di spostare il focus del Giorno del Ricordo sulle vittime di tutti i nazionalismi ma sappiamo che questo proposito è inattuabile mantenendo come ricorrenza quella della firma dei trattati di pace. Temo anche che cercare interlocutori nell’IRSML per promuovere una consapevolezza antifascista al fine di neutralizzare le derive nazionaliste e “nostalgiche” della giornata del Ricordo sia alquanto utopico poiché da un lato credo che l’IRSML, o almeno certi suoi esponenti, siano stati proprio organici all’istituzione di tale giornata, in secondo luogo perché credo che l’antifascismo che contraddistingueva l’istituto si sia nel tempo molto affievolito lasciando spazio ad altre urgenze come quella dell’anticomunismo che viene avvertito come più pressante e in nome del quale mi pare si chiuda disinvoltamente più di un occhio sul pericolo opposto.

    Per esempio il prof. Pupo dice di rigettare pulizia etnica e genocidio ma poi nei fatti non ho mai sentito la sua voce levarsi per richiamare le cariche istituzionali quando usano questi concetti alla carlona dinanzi all’inclito pubblico o peggio, quando incorrono pure in incidenti diplomatici. Anche nella puntata de Il tempo e la storia sono stati mostrati filmati dove la voce narrante parlava di pulizia etnica, infoibati in quanto italiani e sciocchezze varie e quando si ritornava in studio non ho udito nessuna parola di ammonimento da parte del nostro, non l’ho sentito dire “ok, questo però è propaganda e non va bene”. A me pare che la “linea editoriale” suggerita da Pupo manifesti un antifascismo molto all’acqua di rose se non puramente di facciata mentre la vera premura sia “colpire sulla base del comunismo” (mutuando una famosa direttiva di Kardelj, giusto per giocare un po’ sui paradossi ;-)), stigmatizzare, screditare qualsiasi interpretazione anche solo sospetta di benevolenza verso i titini o i comunisti. Come qualificare in questo senso un libello come “Foibe” di Pupo-Spazzali uscito l’anno prima dell’istituzione del giorno del Ricordo? Un testo approssimativo e zeppo di estrapolazioni dove si dà dignità a elementi come Giorgio Rustia (che non basterebbe sferzare un po’ di più, non bisognerebbe proprio degnarlo di nota, così come non si mette Mattogno tra gli storici della Shoah) e si insulta Claudia Cernigoi la quale avrà sicuramente la sua indubbia militanza che si può condividere o meno ma questa da sola non basta a squalificare la sua minuziosa ricerca sulle foibe triestine, e se proprio si vuole controbatterla non si può di sicuro usare Rustia!

    Non ho mai avuto tessere comuniste tranne quella dell’ARCI, personalmente butto di più sul libertario, ma proprio Tomizza faceva dire a un suo personaggio: “Essere comunisti non sarà una bella cosa, ma essere l’opposto di un comunista è la cosa più brutta del mondo”. L’anticomunismo è sempre stato la spia di una società sulla via dell’autoritarismo, dalla Germania di Weimar al regno SHS dei Karadjordjevic, per questo la cosa mi preoccupa.

    Come si è arrivati a ciò? Il processo è stato lento e proprio la dirigenza Valdevit dell’IRSML a fine anni ’90 è stata par mio cruciale in questo senso. Qui si nutrono dubbi sul suo allineamento alla posizione di Violante eppure il suo nome non figura nella petizione che alcuni storici avevano rivolto contro quell’evento indegno (tra i firmatari c’era persino Gianni Oliva…) e secondo Pamela Ballinger egli ringraziò pubblicamente Violante e Fini per il loro gesto (online trovo solo la versione inglese), attirandosi critiche che portarono persino alle sue dimissioni da direttore dell’IRSML!

    Rimane il punto che l’equiparazione di un campo nazista come quello della Risiera di S. Sabba (propedeutico allo sterminio? Così forse si mette d’accordo tutti) alle epurazioni che passano sotto il nome di “foibe” diede la stura a una serie di conseguenze che si palesano proprio in occasione della celebrazione che sto contestando.

    Non ti crucciare troppo per la tua mancata conoscenza del tedesco, ci sono altre cose più importanti prima dell’imparare la lingua del vicino (che comunque aiuta ed è importante). Il mio concetto di meticciato credo possa avere diversi punti in comune con il tuo sentire: esso comporta un percorso di ricerca e di analisi che può essere anche molto personale, di neutralizzazione di barriere psicologiche interiori, complessi di superiorità, stereotipi etnici. Prima di denunciare un sopruso su base nazionale dovremmo TUTTI, indipendentemente dalle appartenze etniche, interrogarci: siamo sicuri che il modo in cui denuncio questo sopruso non generi a sua volta sopruso?
    Il mio meticciato non ha nulla a che vedere con il meticciato “borghese” di cui parlò abbastanza a sproposito proprio il prof. Valdevit in articoli come questo (tra l’altro scritto contro il concerto dell’amicizia…), un meticciato solo apparente assimilabile al contorto e capzioso concetto di “volontarismo” identitario su cui si fonda l’ideologia antislava di Lega Nazionale, dove gli slavi vengono accolti purché rinneghino le loro radici e abbraccino la fede italiana magari diventandone i giannizzeri.

    • A proposito di “meticciato”, Pamela Ballinger parlando dell’Istria (ma il discorso secondo me vale anche di più per Trieste) ha introdotto il concetto di “ibrido autentico”, ossimoro che spiega benissimo come la rivendicazione di “meticciato” possa a sua volta diventare fondamento di un discorso escludente. Si tratta di un “meticciato” a ingredienti predefiniti, in cui – in Istria – l’autoctonia gioca un ruolo fondamentale e ovviamente escludente. A Trieste invece l'”ibrido autentico” dev’essere imperial-regio, un misto di austriaco, sloveno, ungherese; talvolta è tollerato un pizzico di istroveneto, o in certi casi di serbo, per dare un po’ di pepe, ma solo se la discendenza è dalla comunità storica. In questo meticciato non c’è posto per il rimescolamento delle culture nel turbinio delle migrazioni di oggi.

      Aggiungo che quando nel settembre ’43 gli austronazisti arrivarono a Trieste, si presentarono come i restauratori del cosmopolitismo asburgico. Sappiamo com’è andata a finire in realtà, con migliaia di sloveni, croati, ebrei e italiani antifascisti passati per il camino della Risiera.

      Tutto ciò per dire che da queste parti non si riesce a trovare un cazzo di parola che esprima concetti limpidi, puliti, che profumino di aria fresca.

      • p.s. Ovviamente il “meticciato” del “puro ibrido” di cui parla Ballinger è l’esatto contrario del meticciato come lo intende Lorenzo (e come lo intendo io: Perdido en el corazón / De la grande Babylon / Me dicen el clandestino / Por no llevar papel…).

  36. Ti ringrazio. Prima di leggere questa discussione non sapevo quasi nulla del dibattito storiografico odierno a Trieste. Certo mi era chiaro l’anticomunismo di Pupo fin da quando avevo letto il suo intervento nel testo su Porzus edito da “Il Mulino”. Dopo aver letto l’articolo di Valdevit i democristiani trentini mi sembrano fautori di arditi progetti di riforma sociale e di aperture a popoli e culture diverse. Credo che un qualunque studioso trentino che si fosse azzardato a scrivere parlando dei rapporti con i sudtirolesi una frase tipo:
    «Quanti matrimoni misti non si sono fatti a Trieste? Nella mia famiglia allargata, per esempio, quelli che erano arrivati una generazione prima davano pubblicamente alle nuove arrivate l’appellativo di s’ciava o di cabiba, ma mica le cacciavano fuori casa».
    avrebbe provocato reazioni indignate. Senza contare l’ancor peggiore passaggio sull’integrazione grazie all’adozione di uno stile di vita borghese (e sottinteso «italiano»), parole che qui avrebbero fatto inorridire anche i peggiori reazionari cultori delle «specificità locali» e delle radici contadine.
    Il problema trentino è invece opposto rispetto al vostro, è il rischio sempre presente di una chiusura in un localismo che nel migliore dei casi è provincialismo, nel peggiore è quello che definirei «fascismo tirolese», cioè l’idea che sia esistito un mitico Tirolo astorico in cui popolazioni di lingua italiana, tedesca e ladina vivevano felicemente all’interno di gerarchie sociali “naturali” benedette da santa madre chiesa. (per chi vuole conoscere alcuni lati oscuri nella cultura di questa simpatica “conca alpestre” come la chiamavano i democristiani d’antan rimando a quanto ho scritto qui: https://avanguardiedellastoria.wordpress.com/2014/11/20/san-simonino-prega-per-noi/ ).
    Insomma i nostri schutzen sono tipo il movimento Trieste libera, con tanto di sdilinquimento per Zar Putin. Poi anche da noi è arrivata casa clown, ma quello è un problema comune a tutta Italia.
    Ciò che volevo però non era tanto suggerire la ricerca di interlocutori né all’interno dell’IRSML né altrove, ma piuttosto impostare il discorso mettendo al centro l’aspetto divulgativo/didattico. Mi spiego meglio con un esempio pratico:
    Se dovessi organizzare un percorso didattico sulla storia del confine orientale dovrei tener conto anche della visione di Pupo con cui non sono d’accordo. Ritengo mio dovere quando faccio didattica non è dare una precisa impostazione storiografica (non sono un professore universitario ma solo un operatore museale) ma piuttosto fornire più elementi di complessità possibile facendo vedere che i documenti si possono interpretare in modi diversi. E’ questo quello che intendo come “compromesso al rialzo”, cercare di riassumere una data vicenda attraverso alcune operazioni-base sui documenti, cioè interrogandoli, confrontandoli e contestualzzandoli.
    Proprio perché questo è il mio punto di vista sollevo quello che per me è un problema cardine: la natura stessa del Giorno del Ricordo così come la legge lo delinea, e questo non è un problema storiografico, ma politico, perché è stata la politica a fissare per legge come il 10 febbraio va celebrato. La puntate de “Il tempo e la storia”, ne è un ottimo esempio. Qualunque cosa avesse detto Pupo la cornice narrativa era già impostata fin dalle prime battute del conduttore e dai video introduttivi che erano stati scelti (i morti “slavi” nominati come vaga contabilità, le sofferenze “italiane” le uniche ritenute degne di essere illustrate tramite testimonianze). Certo Pupo in quella cornice mi sembrava a suo agio, ma non è questo l’importante; ciò che lui dice attiene al dibattito storiografico, ma il problema esula da quel dibattito. Il problema è che la cornice narrativa è stabilità dalla legge e questo fa si che sia impostata “in automatico” e la scuola come la divulgazione per il grande pubblico in generale si basa proprio su automatismi come questo. Di qui secondo me la necessità di porre il tema del giorno del ricordo non all’interno di una polemica storiografica, ma come una battaglia di libertà per tutti.
    Cosa succederebbe se vedessimo le foibe in una prospettiva che mette al centro le vicende jugoslave? parleremmo di un episodio marginale all’interno di un momento storico in cui i popoli jugoslavi ebbero un milione di morti su di una popolazione di 20 milioni di persone.
    E se vedessimo l’esodo in una prospettiva europea? parleremmo di uno dei tanti spostamenti forzati di popolazioni, anche questo un particolare rispetto ad esempio ai 12 milioni di tedeschi in fuga verso Ovest (e hai tedeschi chiediamo sempre di iniziare ogni discorso dicendo “per fortuna abbiamo perso la guerra”, perché noi non lo facciamo?).
    Il problema è che la legge imposta esplicitamente il giorno del ricordo in un’unica prospettiva.
    Notate come la «Giornata della Memoria» acquista sempre più un valore universale, come le iniziative organizzate per l’occasione trattino sempre più spesso l’argomento della violazione dei diritti umani in generale. Ad esempio a Trento in occasione della giornata della memoria il comune organizza tre giorni di proiezioni sul tema, tra i film di quest’anno vi erano “La masseria delle allodole” e “Hotel Ruanda”. Al termine delle proiezioni il dibattito con i ragazzi delle scuole è impostato in termini generali e si finisce sempre sull’attualità. Questa è una memoria viva, che ha un futuro.
    Con il giorno del ricordo tutto questo è inconcepibile, anche qui si organizzano proiezioni di documentari con le interviste agli esuli (non si può evitare di farlo, si verrebbe bollati come “negazionisti”), ma il loro appeal è minimo. Perché? Perché non hanno alcun valore universale, in una scuola dopo aver celebrato il giorno del ricordo un anno, l’anno dopo non si sente il bisogno di rifarlo, è già diventato la solita solfa.
    Se ci pensate chi ha impostato la memoria degli esuli come “la tragedia degli italiani” ha fatto loro il peggiore dei torti, ha trasformato una storia che poteva diventare specchio delle sofferenze di qualunque persona costretta in qualunque parte del mondo a lasciare la propria terra, in un racconto senza futuro che può interessare solo chi deve coltivare un nazionalismo tribale.
    Per questo credo che prima di tutto, prima di ogni polemica sulle diverse interpretazioni storiografiche occorre sollevare il problema di come la legge imposta il 10 febbraio, cioè dare la priorità all’aspetto complessivo della narrazione anziché a qualche aspetto preciso.
    Ciò detto occorre ricordarsi sempre che un’istituzione come l’ISRML non è fatta solo dai ricercatori, ma anche da chi si occupa di didattica, di editoria, ecc., per questo sono sempre molto cauto nel parlare di un ente del genere nel suo complesso. Non vorrei far torto a chi magari svolge come me una mansione appunto nei “servizi” anziché fare ricerca. Credimi, chi si trova a lavorare nella didattica o nell’editoria magari di rospi deve buttarne giù perché non è lui a dare “la linea”, ma se riesce anche solo ogni tanto a far intravedere all’utenza non chissà quali straordinarie rivelazioni, ma anche solo una visione del mondo un po’ più ricca di complessità, un po’ meno stampata sugli stereotipi, direi che ha fatto già qualcosa di buono, qualunque sia la sua impostazione.
    Certo sarebbe bello avere on line dei materiali didattici che non sentano il bisogno di porre il loro focus sull’ “italianità” o che dedichino lo stesso spazio alle testimonianze “slave” e a quelle “italiane” o che magari facciano anche capire come le identità fossero mescolata, sfumate, sovrapposte e contraddittorie. Ciò che ho detto è che sarebbe bello se lo facesse l’ISRML, ho fiducia, magari ingenua, che chi si occupa di didattica/divulgazione senta il dovere di impostare una molteplicità di approcci narrativi e già i materiali dell’istituto sono quanto di meglio offre il web. Ma ho tenuto aperta, anzi, ho sollevato per prima un’altra possibilità, quella di organizzarci per dar vita ad una narrazione sui documenti della storia del confine orientale e diffonderla sul web. Questa narrazione secondo me dovrebbe partire da una semplice cornice narrativa: le sofferenze ed il punto di vista “slavo” e “italiano” devono avere lo stesso peso. Come punto di partenza terrei la relazione italo-slovena del 2000, ma la integrerei con elementi che allarghino il quadro (ad es le vicende jugoslave del 1941-45, l’esodo dei tedeschi dall’Europa orientale) e con altri che tengano conto della permeabilità e fragilità delle identità, nonché delle elaborazioni che superavano le identità nazionali (in primis l’austromarxismo).
    Sul concetto di identità ed i rapporti tra popoli diversi ti segnalo gli scritti di Alex Langer http://www.alexanderlanger.org/it/1 , domani se ho tempo sul lavoro fotocopio un brano di Diego Leoni ne “Il popolo scomparso” sull’identità dei trentini alla vigilia della grande guerra che secondo me ti sarà utile per le riflessioni che stai facendo.
    Ti ringrazio ancora perché il tuo post mi ha spinto ad iniziare un mio percorso di ricostruzione di una vicenda della mia famiglia. Mia prozia, che ha fatto la maestra per tutta la vita e per me è sempre stata un modello di dedizione all’impegno educativo. Nell’anno scolastico 1941-1942 venne mandata a insegnare a Jablanica, allora provincia di Fiume e non le fu facile portare a casa la pelle. Sto scrivendo la storia e cercando di contestualizzarla. Mi sa che nel giro di una settimana dovrei riuscire a postare il tutto su “Avanguardie della storia”.
    Grazie ancora.

    • @tom trento
      non so se in seguito al tuo articolo, però la pagina attuale della treccani, alla voce “omicidio rituale” ha cambiato decisamente tono…

      mitico!

      • A dire la verità quelli della treccani hanno corretto intorno all’8.12.2014, come segnalo nell’aggiunta al post, credo proprio sia dura che abbiano visto quanto ho scritto io visto che allora finire su “Avanguardie della storia” era quasi impossibile. Certo è inquietante che ci abbiano messo 4 anni per accorgersi di un delirio antisemita sulla Treccani.

    • Ecco la citazione che personalmente mi è stata utile per inquadrare il concetto di “meticciato”, certo la situazione trentina era molto diversa da quella del litorale, ma forse può essere utile anche in questa sede:

      Prima del 1914 “uomini e donne [in Trentino] potevano scegliere un tipo di identificazione collettiva non allo stesso modo di un paio di scarpe, cioè con la consapevolezza che se ne può calzare un solo paio alla volta”, e dunque era possibile che un trentino fosse figlio di una madre “austriacante” e di un padre “filo italiano”, che fosse cattolico e membro della lega dei contadini, oppositore politico e fedele all’imperatore, che avesse studiato a Vienna e insegnasse in Italia. Dopo, questo meticciato non fu più possibile e le diverse fedeltà vennero in conflitto: gli uomini arruolati nell’esercito austroungarico furono dal comando supremo considerati non affidabili perché di lingua italiana; i fuoriusciti in forza all’esercito italiano guardati con diffidenza perché ex-sudditi di uno stato nemico; all’interno della comunità dei profughi forti furono le lacerazioni provocate dalle scelte di campo a favore o contro l’Italia; e così fra i prigionieri in terra di Russia e finanche al rientro in Trentino, quando molti di essi furono dalle autorità italiane forzatamente allontanate dai loro paesi per essere rinchiusi in campi di prigionia perché sospetti di austriacantismo e/o peggio di bolscevismo (un’associazione che per tutti gli anni venti e trenta ricorse frequentemente nei procedimenti giudiziari o di polizia a carico degli antifascisti.

      Diego Leoni. Il popolo scomparso In:
      «Il popolo scomparso : il Trentino, i Trentini nella prima guerra mondiale (1914-1920)» a cura del Laboratorio di storia di Rovereto, Luciano Bettini … [et.al.] ; hanno coordinato la ricerca Quinto Antonelli, Diego Leoni. Rovereto: Nicolodi 2004.

    • Non sono esistiti solo il Ruanda e/o altro, come massacri. C’è stato il massacro dei Comunardi nel 1871 e altri massacri del genere. Forse sarebbe bene mettere tra il materiale video cose un po diverse, come L’atto di uccidere (The Act of Killing) e The Look of Silence di Joshua Oppenheimer, che parla di un altro tipo di massacri, forse anche più grossi ma che nessuno menziona. Che non avevano ragioni nazionali od etniche.

      • Concordo, quei film non li ho scelti io (in mezzo c’era anche “storia di una ladra di libri” che non mi è piaciuto per nulla) ma qualcuno del comune, io e i miei colleghi abbiamo dovuto introdurli e cercare di imbastirci su un minimo di dibattito dopo il film. La didattica funziona così, ti ritrovi in mezzo a degli eventi decisi da altri e tu devi fare il tuo lavoro, sperando di contribuire a fare una cosa dignitosa. Devo dire che al di là dei film trovo che comunque iniziative come le proiezioni per la Giornata della memoria e dintorni siano una cosa sostanzialmente positiva. Se non altro si trovano nella stessa sala a guardare lo stesso film e a sentire due parole in proposito sia i ragazzi dei licei bene sia quelli dei professionali, e questo spero serva ad entrambe. Ad esempio dopo il pessimo “storia di una ladra di libri” ho provato ad imbastire un minimo di dibattito sul concetto di “ignoranza volontaria” che Primo Levi attribuiva ai tedeschi durante la Shoah e a chiedere ai ragazzi se questa “ignoranza volontaria” di fronte alla violenza era presente anche nella nostra società. Ovviamente devi immaginare il tempo contato (si e no mezz’ora), le banalità, il casino, l’insegnante che ti fa segno “taglia, taglia” che ha altro da fare, ecc. ma almeno una cosa è venuta fuori dai discorsi dei ragazzi: al classico fanno un ora di lettura dei quotidiani in classe, ai ragazzi piace e la trovano utile; nei professionali (e anche in molti istituti tecnici) no. Spero qualcuno, studenti o insegnanti, si chieda “perché loro sì e noi no?”. Secondo me questo è già un risultato.
        Meglio ancora la proiezione di “Hotel Ruanda” dove alla fine ha parlato un testimone, spiegando brevemente che buona parte dei conflitti africani nascono dagli interessi di aziende e stati occidentali. “Bella banalità!” mi direte, ma per quei ragazzi erano tutte novità, tant’è che stavano attenti sul serio. Insomma si fa quel che si può.

  37. Se l’ideologia titina non avesse avuto connotati nazionalisti, anti-italiani e non fosse stata dotata di velleità territoriali risulterebbe difficile capire sia l’eccidio di Porzus, sia l’appoggio di molti antifascisti italiani a formazioni di difesa (poi confluite in Gladio) dei confini italiani, sia l’imposizione (antitetica ma non per questo meno brutale di quella perpetrata dal regime fascista) della lingua e della cultura slava addirittura nella toponomastica e nei documenti delle zone conquistate. A testimonianza dell’autentico odio razziale respirato nella Jugoslavia comunista, si legga, ad esempio, la testimonianza di Nelida Milani (da A. M. Mori, N. Milani, “Bora”, Milano, Frassinelli, 1998, pp. 41-42 e 226-227):

    “Vicino alla scuola elementare Vladimir Goitan un uomo stava fermo con un grosso cane, ma
    noi non riuscivamo a mettere a fuoco l’immagine. Gli andavamo incontro, ignari. Quando fummo
    vicini, lui ci guardò con occhi cupi e fermi nella faccia larga e pelosa e ci disse: “Se vi sento ancora una volta parlare italiano, mollo il cane che vi divori. Ve la faccio passare io la voglia di parlare questa lingua fascista” […]. Le nostre gambe, paralizzate dalla paura, sembravano di piombo, si rifiutavano di muoversi, volevamo gridare e non ci veniva fuori la voce. Le orecchie che ardevano, i cuori d’un subito piccoli e molli, ce ne restammo zitti e terrorizzati per tutta la strada, fino a casa di nonna. Ma come dovevamo parlare, in quale lingua? […]
    Ecco fu così che la fanciullezza ci regalò questa grande confusione. Quell’episodio entrò nella mia mente, nella mia vita, e vi rimase come un segno, un avvertimento, uno sforzo perenne di capire, di interrogare disperatamente la tenebra […]. Quando, alcuni anni più tardi, anche i miei fratellini Claudio e Diego, segnati nei registri e per la vita come Klaudio e Dijego, dovettero andare alla scuola croata, io abbandonai definitivamente la presunzione di padroneggiare un’individualità coesa definita.”

    Solo da testimonianze come queste si riesce a capire perché centinaia di persone, talvolta di condizioni misere (si pensi ai contadini istriani), furono disposte a lasciarsi alle spalle le proprie case e le proprie radici territoriali in favore di una fuga piena d’incognite e, troppo spesso, foriera di ulteriori pesanti umiliazioni.

    • Non ho letto il libro che citi ma a quanto mi risulta Nelida Milani è una “rimasta” e ha scritto e pubblicato in italiano in Jugoslavia prima e Croazia poi, mi pare anche che sia stata proprio insegnante di italiano peraltro. Non mi pare che esistessero cattedre di lingua e letteratura slovena o croata sotto il fascismo o giornali e teatri di lingua “allogena”, quindi andrei piano con le facili simmetrie. Questo non significa negare le violenze e l’ostilità su base nazionale che indubbiamente ci furono in quelle terre nel dopoguerra, lo testimoniano proprio le circolari e gli ordini che alcuni dirigenti diffusero allo scopo di scoraggiare questi comportamenti.
      Peraltro discriminazioni, angherie, pestaggi e violenze psicologiche colpirono la minoranza slovena nell’Italia repubblicana e posso testimoniarlo anch’io che sono stato bambino negli anni ’80 a Trieste dove ho sentito maestre o educatori cercare di placare atti di bullismo con frasi tipo “non è colpa sua se ha genitori slavi”. Si potrebbe parlare delle vessazioni subite dagli abitanti di lingua slovena della Slavia Veneta, in Friuli orientale, fino agli anni ’70, spesso perpetrate da Carabinieri, non solo semplici giovani neofascisti.
      Parlarne non per fare ancora insensate simmetrie ma per condannare in toto tutte queste sciagurate violenze e in maniera onesta: non puoi lamentare una discriminazione razziale con parole a loro volta generalizzanti e razziste. Un concetto che fino a 30 anni fa forse era difficile da capire, ma nel 2015 potremmo iniziare a mettercelo in testa.

    • Parli di ideologia titina (sinceramente non capisco bene cosa sarebbe, esiste una idelogia comunista, poi, dopo il ’48, una ideologia – o meglio, delle posizioni teoriche – dei comunisti jugoslavi specifica, ma una ideologia titina sinceramente non so cosa sia) e poi riporti quanto scritto in un romanzo riferito al comportamento di una persona. Per parlare del fatto che l’ideologia titina avesse dei connotati nazionalisti dovresti citare qualche presa di posizione ufficiale, qualche posizione teorica del PCJ in tal senso. Il PCJ (ed i vari partiti nazionali che lo componevano) aveva delle posizioni sulla questione nazionali, che sono cambiate nel tempo, ma che possono essere sintetizzate nella formula “bratstvo i jedinstvo” (fratellanza e unità). Questa era la posizione diciamo ufficiale. Però nel PCJ la questione nazionale era anche stata ed ha continuato ad essere una questione dibattuta e anche foriera di scontri, con posizioni anche scioviniste (e non solo in epoca recente). Però a livello di stato federale e delle stesse repubbliche non c’è mai stata una posizione che sostenesse ufficialmente la discriminazione di qualcuno in base alla sua appartenenza nazionale (a parte i tedeschi). Nemmeno nella pratica del potere federale è riscontrabile qualcosa di simile. Diverso il discorso per quanto riguarda le repubbliche – un documento che ho trovato in frammento è un documento degli anni ’50 in cui funzionari federali, della Slovenia e della Croazia dibattono sulla questione degli italiani che se ne vanno. Ebbene, in tale dibattito i croati sostengono la necessità di fermare le partenze (dicono che tanto i “reazionari” se ne erano già andati tutti) perché impoveriscono la regione, mentre gli sloveni sostengono che non è per nulla necessario fermarle, anzi, le considerano positive. I rappresentanti della federazione non prendono una posizione e alla fine anche non c’è alcuna decisione, che viene rimandata a una nuova riunione. Altri ricercatori – Mila Orlic – hanno visto gli archivi jugoslavi (credo Belgrado e Zagabria) e da questi emerge che mentre a livello locale (comunale per lo più) ci sono pratiche di discriminazione degli italiani in quanto tali, a livello federale c’è un costante richiamo ai livelli più bassi contro tali pratiche. Quanto scrive la Milani circa l’imposizione di nomi “jugoslavi” è vero, come pure le violenze e le pressioni ( confermato da testimoni sloveni) nei confronti di italiani, ma sono cose determinate dai livelli locali e non uniformi – quanto dici della toponomastica è vero per buona parte dell’Istria croata, ma non per quella slovena, dove da sempre la toponomastica è bilingue (comprese le insegne di negozi e attività private).
      L’eccidio di Porzus con tutto questo non c’entra proprio nulla, perché è precedente, ed è legato invece ai tentativi di fronte unico in funzione anticomunista di osoppo e Decima MAS. Sono questioni precedenti cronologicamente quanto succede in Istria dopo il ’45. Quello che poi definisci “velleità territoriali” non sono legate a questioni nazionali (almeno non in primis), ma semplicemente al fatto – e lo dice Togliatti in una celebre missiva ai comunisti italiani della VG – che dove fosse arrivato l’esercito jugoslavo i partigiani non sarebbero stati disarmati, come facevano gli angloamericani. E questo significava che i partigiani, naturalmente in primis quelli a guida comunista, avrebbero rappresentato al forza armata di un nuovo potere, la garanzia di far contare i comunisti nella costruzione del nuovo stato italiano. E’ legato a quanto dice Kardelj nel verbale citato sopra sul fatto che in Italia la Resistenza sarebbe stata distrutta dagli angloamericani, non avrebbe avuto nessun ruolo. Da tale analisi discende anche l’atteggiamento degli jugoslavi verso l’Italia monarchica, che prevedono diverrà un nuovo ponte di lancio per attacchi contro il loro regime. Il nazionalismo non c’entra molto, anche se c’era. ;a era proprio non dei comunisti, ma di coloro che oggi vengono dipinti come la parte “democratica” della resistenza jugoslava, ovvero come gli “oppositori” (di cui si dimentica il collaborazionismo con i nazifascisti, con una parte che era anche apertamente e dichiaratamente fautrice delle stesse ideologie di fascismo e nazismo) dell’instaurazione del “comunismo”. Erano costoro che sostenevano la necessità di cacciare TUTTI gli italiani oltre Isonzo, non i comunisti. Tra i comunisti sloveni ci furono rimozioni di persone da posizioni di rilievo nella VG perché giudicate scioviniste verso gli italiani. Posso citarti diversi casi in cui alcuni dirigenti riprendevano duramente funzionari locali nella VG per passaggi sciovinisti nella stampa e/o nei volantini (a memoria il caso di un articolo il cui autore venne duramente ripreso per il fatto di aver scritto sempre di “italiani”, generalizzando e colpevolizzando tutti gli italiani indistintamente, mentre avrebbe dovuto riferirsi ai fascisti). Altrettanto certo è il fatto che tra la popolazione slovena molti non vedessero di buon occhio gli italiani, anche quelli delle formazioni partigiane. Ma questo non puoi imputarlo ai comunisti, ma all’amplissima semina di odio nazionale fatta da entrambi gli schieramenti nazionalisti a partire dal momento della loro nascita (con il dato di fatto che il partito nazionalista sloveno a Trieste mai ha chiesto la cacciata degli italiani o la negazione dei loro diritti nazionali, al contrario di quanto facevano i liberal nazionali).
      Ma tutte queste cose andrebbero solo approfondite, sarebbero le cose da fare effettivamente per CAPIRE, mentre si preferisce fare le celebrazioni del Giorno del Ricordo e continuare a costruire storiografie nazionali (e nazionaliste). E non è un caso.

      • Ci tengo innanzitutto a ringraziarti per l’accurata risposta. Approfitto della tua indubbia preparazione in materia per esprimerti alcune perplessità che persistono nei miei apprendimenti: innanzitutto mi è sempre parsa alquanto pretestuosa la spiegazione della strage di Porzus come risposta alle contiguità tra la brigata Osoppo e la X Mas. A parte il fatto che i colloqui tra le due formazioni non hanno mai superato lo stadio embrionale (sia per l’acerrima contrarietà a questi colloqui da parte di una fetta consistente della Decima, sia perché, come scrisse il capitano della Flottiglia Manlio Morelli nel suo memoriale: all’inizio del 1945 “per la Decima era impossibile rimanere a lungo nell’area giuliana, controllata completamente dai tedeschi (…), senza assumere posizioni di difesa sostenibili con la forza delle armi. Una situazione decisamente precaria, considerando le forze su cui si poteva contare. Per la Decima era impensabile aggregarsi alla Osoppo, giacché le unità puramente navali ne sarebbero state impossibilitate. Di conseguenza, la Osoppo avrebbe dovuto affrontare da sola la rappresaglia tedesca”), uno dei mediatori della Decima, Alfonso Boccazzi, sostenne di essere venuto a conoscenza di una tacita intesa che sarebbe stata stipulata tra i comunisti di Tito e i componenti di etnia slava che combattevano nell’esercito tedesco, i quali avevano promesso di schierarsi con la Jugoslavia comunista se essa fosse riuscita a occupare la Venezia Giulia. Dirò di più: i contatti tra la X Mas e frange della Resistenza italiana sarebbero stati anche conseguenza di quanto stava analogamente succedendo sul versante slavo.
        Come avrai capito, a mio parere i motivi che hanno portato alla strage di Porzus non possono essere riconducibili soltanto a dei contatti con la Decima che, oltretutto (mi riferisco agli ultimi disperati tentativi di approccio da parte di Borghese), non tenevano conto del fatto che oramai la Flottiglia fosse oramai malridotta e troppo dispersa sul territorio (questo ciò che concluse l’ultimo mediatore della Flottiglia, Antonio Marceglia, nella relazione conclusiva).
        Che ci fosse una feroce ostilità verso gli italiani mi pare sia dimostrato anche da ciò che avvenne nei famigerati “Quaranta giorni” di occupazione triestina da parte della IV Armata jugoslava: l’ordine, ad esempio, da parte del Comitato centrale del Partito comunista slavo di “occupare Trieste con l’esercito jugoslavo e non con i garibaldini”, oppure la palpabile ostilità verso questa occupazione da varie fazioni dell’antifascismo italiano. Si legga, ad esempio, questo stralcio di un rapporto del Corpo volontari della libertà (Archivio Presidenza del Consiglio dei Ministri, fondo Ufficio zone di confine, doc. Corpo Volontari Libertà, Comando III Divisione, n.19 di prot., oggetto: “Questione slovena”, 17/04/1945): “Le popolazioni di queste zone sono letteralmente terrorizzate e pensano alla dannata evenienza che al momento del crollo tedesco possano finire alla mercè degli slavi, con vero senso di raccapriccio”, popolazioni che accolsero i nuovi occupanti con “folate di paura che corrono per le strade, come se fosse arrivata una epidemia mortale, che può insinuarsi casa per casa” anche da parte di molti triestini fedeli al comunismo (si veda C. Sgorlon, “La foiba grande”, Mondadori, Milano 1993, p.228). Si pensi anche ai colpi di mitragliatrice che i titini riservarono ai manifestanti che la mattina del 05/05/1945 rivendicavano l’italianità di Trieste (se non ricordo male ci furono anche dei casi di proiettili sparati contro i tricolori esposti ai balconi), e tralascio volutamente la sorte dei circa 160 membri del Cln misteriosamente scomparsi (su questo si è già risposto nel testo di partenza di questa pagina).
        D’altronde, se non ci fosse stata una profonda difficoltà a vivere in quelle zone, cosa ha spinto uomini e donne di ogni estrazione sociale ad abbandonare le proprie case per un ritorno ricco d’incognite verso l’Italia?

        • E’ ben documentato che gli schieramenti filo-italiano e filo-jugoslavo nel biennio ’45/’46 tagliavano trasversalmente le comunità nazionali nella Venezia Giulia. Nel marzo del ’46 l’ambasciatore italiano a Londra scriveva preoccupato al ministro degli esteri Prunas, riferendogli che secondo gli inglesi l’ 80% della classe operaia triestina era favorevole all’annessione alla Jugoslavia (si veda ad esempio qui a pag. 85). La preoccupazione di Carandini era che non sarebbe stato possibile continuare a mantenere i termini della questione sul piano della contesa territoriale e nazionale, perchè la questione sociale si stava imponendo prepotentemente. Quel biennio di solito viene raccontato ignorando completamente il durissimo scontro sociale in atto, con scioperi, arresti, condanne, morti in piazza negli scontri con la polizia. Di quel biennio si raccontano solo gli scontri di carattere nazionale. Questa è l’ennesima rimozione della storiografia italiana mainstream.

        • Si, però se continui a citare fonti quali Sgorlon, la Milani ecc. io posso citare Paolino Paperino. Poi citi un rapporto del CVL (di dove?) che non è né il primo ne l’ultimo rapporto sul “terrore” della popolazione. Di roba del genere ce n’è a bizzeffe, in particolare dall’Istria, da dove arrivavano rapporti al governo italiano in cui si diceva che gli jugoslavi avrebbero avuto le liste pronte per eliminare 16.000 italiani o addirittura TUTTI gli italiani. Liste mai viste da nessuna parte. Lo scopo di quei rapporti era di ottenere uno sbarco alleato in Istria che precedesse l’arrivo delle truppe jugoslave ed impedisse l’instaurarsi dei poteri popolari, garantendo il mantenimento del potere ai ceti borghesi italiani (che più che antifascisti in Istria erano a-fascisti nella migliore delle ipotesi, quelli che scrivevano sti memoriali). Ed è proprio agli obiettivi che si proponevano di ottenere questi memoriali che è legata la cosa che dicevo di Porzus. Alla fine del ’44 Bonomi (capo del governo) De Courten (Ministro della marina) e Gasparotto (ministro dell’aereonautica, ma sopratutto i primi due) diedero il via a tutta una serie di missioni volte ad ottenere che forze “italiane” impedissero che le truppe jugoslave liberassero la VG, cercando l’alleanza tra Osoppo e Decima mas, ma anche senza. Dopo che qualcosa di queste manovre era giunto alle orecchie di Togliatti (in particolare che Gasparotto avesse cercato di ottenere dal CLNAI che le formazioni partigiane italiane occupassero la VG per impedire l’ingresso delle truppe jugoslave), questi scrisse, il 7 FEBBRAIO, a Bonomi una lettera in cui diceva che ciò significava scatenara una nuova guerra tra Italia e Jugoslavia e che sul piano interno la cosa avrebbe portato alla guerra civile, dato che il PCI mai si sarebbe messo a combattere contro le truppe jugoslave. Tutto questo lo trovi in un saggio di un feroce comunista titino che risponde al nome di Raoul Pupo nel libro “La crisi di Trieste. Maggio – giugno 1945”). La cosa di Porzus accadde lo stesso giorno o quello seguente (la data varia e non è per nulla acclarata). Un caso? O non forse un esempio molto duro e chiaro di qiello che poteva accadere se tali progetti fossero stati portati avanti? (i progetti nonostante tutto vennero comunque portati avanti). Gli jugoslavi non ne sapevano assolutamente nulla, tanto che chiesero al PCI informazioni su cosa era accaduto. Quanto alla Osoppo ci furono più di qualche contatto, ci furono le pattuglie miste con i fascisti a Raveo, l’uccisione di alcuni garibaldini … Sugli strani rapporti tra osovani (non tutti) e i fascisti vedi quanto dice Irene Bolzon nel suo libro sul centro di tortura fascista di Palmanova (credo la caserma Piave). E c’è il dato di fatto che per precedere i garibaldini l’Osoppo fece diventare da una notte all’altra “partigiani” l’intera unità degli alpini (fascista) Tagliamento, che dopo essere stata molto attivamente al servizio dei nazisti fino al giorno prima divenne di botto l'”unità partigiana osovana” che liberò Cividale”. Tieni anche presente che i comunisti jugoslavi (e anche quelli italiani) non avevano nessuna intenzione di finire come quelli greci, che nell’ottobre del 44 avevano visto prima i nazi tenere Atene fino all’arrivo degli inglesi per impedire che fossero i partigiani dell’EAM a liberarla (e instaurare la loro amministrazione), e poi gli inglesi rompere gli accordi politici sul dopoguerra, mandare il loro esercito a cacciare l’EAM da Atene per poi riarmare gli ex collaborazionisti che federo strage di comunisti. Ma una ripetizione dell’esperienza greca non la volevano nemmeno gli angloamericani, che infatti dissero no alle richieste di Bonomi di far sbarcare truppe regolari italiane nella VG.
          Quanto ai 160 membri del CLN misteriosament scomparsi è l’ennesima cifra che sento, senza alcuna base, peraltro: una volta l’ho chiesto anche al presidente dell’Associazione VL di Trieste, Forti, che ha risposto che erano 17 gli scomparsi (per mano jugoslava). Se il CLN non è in grado nemmeno di dare un numero certo di quanti dei loro sarebbero stati arrestati dagli jugoslavi ….. D’altra parte il CLN annovera tra i propri membri anche un personaggio come il Podestà che ho già citato, che da qualsisasi altra parte sarebbe stato considerato un traditore. Infine la manifestazione del 5 maggio: in città vigeva il coprifuoco (come vigeva in altre parti d’Italia sottoposte al GMA) e le autorità militari jugoslave avevano esplicitamente proibito manifestazioni nazionaliste. Che siano andati giù un po pesanti non c’è dubbio, ma non so se sarebbe andata diversamente se al loro posto ci fosse stata un’altra amministrazione militare. Poi anni fa ho conosciuto una persona che si era aggregata alla manifestazione ed era anche rimasta gravemente ferita che mi diceva che nel lungo tempo passato in ospedale ci aveva pensato a quanto era accaduto e si era convinto che loro erano sfilati sotto una bandiera sotto la quale fino a pochi giorni prima i fascisti ne avevano combinate di tutti i colori e che quindi quanto aveva fatto era stata una gran cazzata dettata dalla sua giovane età. Ciò non giustifica nulla (nemmeno l’atribuire agli jugoslavi una donna che è morta sì il 5 maggio in ospedale, ma prima che la manifestazione iniziasse – Giovanna Drassich, che viene tuttora annoverata tra i “morti per mano jugoslava” anche sulla lapide posta qualche anno fa, vedi http://bora.la/2014/10/03/scampoli-storia-poteva-persona-gia-deceduta-guidare-corteo-5-maggio-1945/), ma forse spiega un po la reazione. Però falsificare le foto, come inserire nomi di persone che non c’entrano nulla pur di far lievitare i numeri (ricordo qualche anno fa Codarin che a proposito dei morti per Trieste italiana del ’54, quando aveva sentito il numero – 6, era sbottato in un “ma no, devono essercene stati di più – e poi devono esserci state altre occasioni in cui ci sono stati morti per Trieste italiana!”) o sparare numeri a caso non è una buona premessa per cercare di CAPIRE. E’ una buona premessa per continuare a raccontarsela.

          • Gia che è venuto fuori Porzus ti porgo una domanda. Sto tentando nel tempo libero di scrivere la biografia di Giuseppe Ferrandi,un partigiano socialista nativo di Mantova e attivo in Trentino. Dopo la guerra fu deputato del Fronte Popolare e siccome pare fosse un principe del foro difese parecchi partigiani sotto processo. Purtroppo dopo la sua morte nel 1955 le sue carte sono state buttate, ma da interviste pare che abbia difeso gli imputati per i fatti di Porzus. Ti risulta? in caso gli atti del processo sono stati pubblicati o se ne parla diffusamente da qualche testo?

            • Credo che i materiali del processo siano disponibili (non so però se tutti o solo sentenza e dispositivo), ma per maggiori notizie vedi il libro della Kersevan (credo sia in preparazione una versione aggiornata ed arricchita), “Porzus, dialoghi su un processo da rifare”. Forse lo trovi in qualche biblioteca. Ma più di così non so dirti.

              • Ottimo grazie, avevo proprio pensato di partire dal testo della Kersevan, stando attento che non ne esca un’edizione più aggiornata.

          • Devo ammettere che questo dibattito ha sollecitato non poco la mia curiosità nell’apprendere le vicende della Osoppo. Dopo aver compiuto una sommaria ricerca ci sono però degli aspetti su cui aleggia la mia confusione: innanzitutto gradirei sapere se esiste la certezza che la brigata Osoppo, dopo aver addirittura vissuto un effimero periodo di stretta collaborazione con i garibaldini (il che mi pare testimoni un tutt’altro che pregiudiziale astio anticomunista), abbia ingaggiato in maniera spontanea e unilaterale una feroce lotta contro la Resistenza comunista. Da quel che ho avuto modo di cogliere, infatti, mi risulta che ad “aprire le ostilità” ponendo in forte risalto la questione nazionale sia stata la scelta dei garibaldini di porsi alle dipendenze del IX Corpus sloveno, il quale mi pare avesse una ben definita posizione sulla nazionalità della Venezia Giulia (questo è quanto scriveva il 09/09/1944 Kardelji in una lettera indirizzata al dirigente comunista Vincenzo Bianco: “Il Pci non intraprenda nulla che possa rafforzare le mire imperialistiche su terre prettamente slovene della Julijska Krajina cui appartiene a nostro avviso sotto ogni aspetto la città di Trieste”, un documento riportato integralmente in P. Pallante, “Il Pci e la questione nazionale”, Istituto Friulano per il Movimento di Liberazione, Udine 1980, pp.187-88).

            Già dall’ottobre 1944 si registrano le prime “provocazioni” del versante slavo nei confronti della Osoppo: in quel mese, ad esempio, il commissario politico della brigata slovena Osvobodilna Milan Usicat divulgò nel basso Friuli un volantino in cui s’insinuava che i componenti della Osoppo “non professano i nostri comuni ideali di liberazione del proletariato…Essi non sono più combattenti per la libertà, ma falliti politici che sostengono sull’equilibrio di quello che sono stati fino a ieri. Essi non sono più partigiani, perché non hanno voluto sottostare agli ordini del Maresciallo Tito” (documento riportato in G. Conedera “Dalla Resistenza a Gladio”, Udine 2011, pp.231-232). Non solo: alla fine di ottobre una relazione redatta dai responsabili del I Comando della brigata Osoppo Francesco De Gregori e Alfredo Berzanti (Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Udine, Archivio Osoppo, cart. R1, fasc.12, doc.2/b, “Relazione del Comando Prima Brigata Osoppo- Corpo Volontari della Libertà- Comando Prima Brigata Osoppo”, oggetto: “Questione slovena”, 31/10/1944) denunciava con evidente preoccupazione la pressante campagna antiitaliana condotta dal fronte unito partigiani sloveni-brigate Garibaldi. Era manifesta, asserivano, “la volontà dei responsabili da parte iugoslava di impadronirsi con ogni mezzo (diplomazia, propaganda e forza) della Slavia italiana (terra appartenente al regno d’Italia sin dal 1866)” aggiungendo la loro convinzione che gli sloveni “lavorassero subdolamente, con un programma continuo, ma sfuggente ad ogni controllo, per diffondere sentimenti slavi tra le popolazioni della Slavia italiana” già dal mese di settembre, quando “cominciarono a giungere al Comando i primi gridi (sic) di allarme delle popolazioni interessate, che denunciavano atti sloveni che non appartenevano ormai più al campo della propaganda, ma che erano vere e proprie manifestazioni sciovinistiche, appoggiate dalla forza”. Tra queste manifestazioni, venivano accusati i partigiani comunisti di “imporre la chiusura delle scuole italiane sostituendole con scuole slovene”, “effettuare plebisciti fatti sotto la minaccia potenziale delle formazioni armate presenti” e “ordinare la mobilitazione generale di tutti i giovani”.
            La lettera prosegue con un racconto interessante, ossia quando, nonostante tutto, i due estensori narrano di aver tentato un accordo col IX Corpus al fine di non rompere definitivamente l’unità antifascista pregiudicata dalle azioni provenienti dal fronte comunista. Sarebbe stato il capitano sloveno Ivan Matejka a dimostrarsi inflessibile e, in comunione con i garibaldini, a mettere in chiaro che l’accordo si poteva raggiungere solo e soltanto se la Osoppo fosse passata sotto il comando del IX Corpus (una proposta, scrivono i due partigiani, “irricevibile e provocatoria” in quanto da un lato “avrebbe avuto pessime ripercussioni sulle popolazioni che si erano rivolte proprio a noi per chiedere di essere protette contro l’invadenza slovena” e dall’altro avrebbe significato “portare la Osoppo a combattere in territorio italiano e per interessi non italiani”). Vista l’irremovibilità del fronte sloveno, si concludeva che “oggi, in questa zona contro le pretese slovene, non resta che questa nostra Brigata piena di volontà di difendere gli interessi italiani, ma senza mezzi adeguati”.

            Un’altra relazione dei due partigiani (Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Udine, Archivio Osoppo, cart. H5, fasc. 101, doc. 12, “Rapporto del Comando Prima Brigata Osoppo sull’incontro con il Comando della divisione Natisone”, 23/11/1944) racconta che, dopo aver preteso un colloquio con la Prima Divisione Garibaldi (si denunciavano i partigiani garibaldini di un pesante furto di rifornimenti a danno della Osoppo), il commissario politico della Garibaldi Gianni Padoan “disse che coloro che preferiscono appoggiare la politica democratica borghese dell’Inghilterra, anziché quella democratica progressiva, saranno considerati conservatori e reazionari e quindi, come tali, ritenuti responsabili davanti al popolo. Disse che i partigiani garibaldini non avrebbero mai permesso che in Italia si instaurasse un regime democratico che facesse comodo all’Inghilterra. Affermò che i territori della Venezia Giulia e della cosiddetta Venecia sono territori legittimamente sloveni, sui quali perciò il comando del IX Corpus sloveno ha pieno diritto di giurisdizione”. Gli emissari della Osoppo “non approvando”, fra le altre cose, “che formazioni slovene approfittino della loro presenza in zona per fare propaganda sciovinistica nei confronti di quelle popolazioni che si sentono ancora italiane e tali vogliono rimanere” e “non ritenendosi in obbligo di svolgere propaganda alcuna a favore dell’annessione alla Jugoslavia di territori italiani fin dal 1866 ed al reclutamento nelle formazioni slovene dei loro abitanti”, respinse i diktat di Padoan.

            Queste furono le premesse che resero il rapporto tra le due formazioni talmente insostenibile che in una relazione di Giovan Battista Marin e Manlio Cencig della Osoppo si scriveva che “sono ormai molti coloro che si ritirano dalla lotta o che non la favoriscono nel timore che il domani si prospetti più grigio del passato” (Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Udine, cart. R1, fasc. 12, doc. 2/a, 12/11/1944; documento dove, fra l’altro, s’implorava l’unità antifascista: “Davanti ad un nemico nazista che ha dato ampia dimostrazione di quanto possano le sue possibilità guerriere, le Formazioni Partigiane non possono trovare forza che da un’intima e solidale collaborazione”). De Gregori, in uno dei suoi ultimi scritti (si tratta di una lettera spedita al Cln e alla missione inglese), il 17/01/1945 arrivava a concludere che gli osovani erano oramai rinchiusi in una morsa angosciante, stretti “fra il nemico palese (truppe tedesche e repubblicane)” e “il nemico occulto (truppe slovene e garibaldine), non meno pericoloso e non meno imbevuto di odio nei nostri riguardi” (Istituto Friulano per il Movimento di Liberazione, fondo Lubiana, b. 2, f. 44, citato fra l’altro in G. Perona, “Le formazioni autonome nella Resistenza” pp.284-85).

            Gli approcci dell’inizio ’45 con esponenti del nazifascismo (che non mi risulta approdarono a qualcosa di concreto) vanno insomma inquadrati da un lato in questa ostilità ingaggiata dai comunisti e dall’altro nella vicenda raccontata da Boccazzi a cui facevo riferimento nel mio precedente commento (ossia dal fatto che anche i comunisti, pur di accaparrarsi la Venezia Giulia, avevano raggiunto un’intesa con le frange slave dell’esercito nazista). Aggiungo inoltre che, a testimonianza dell’assenza di accordi precisi tra la Osoppo ed esponenti del nazifascismo, il cappellano della Osoppo don Aldo Moretti denunciò (in una lettera all’arcivescovo di Udine, Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Udine, Archivio Osoppo, cart. H9, fasc. 219, doc. 2, “Lettera di Lino all’Arcivescovo di Udine sui contatti col nemico”, 28/12/1944) sia la fucilazione del Comandante della II Divisione Osoppo-Friuli Franco Martelli a opera dei nazisti, sia l’accanimento contro la Osoppo perpetrato dagli stessi nazisti nella zona da Pinzano a Travesio (di lì a qualche giorno il capitano Barbasino della X Mas avrebbe proceduto a Tramonti di Sotto alla fucilazione di parecchi membri della Resistenza, tra cui alcuni osovani). E questi, sottolineava il cappellano, sono solo “alcuni dei recenti fatti, senza contare le moltissime ignominie che abbiamo subite nel passato”.

            Morale della favola: possibile che sia il Cln di Trieste, sia la Osoppo (quasi fossero in comune accordo) fossero intrisi di un implacabile odio anticomunista dopo aver addirittura collaborato per alcuni mesi (in Val Cellina e nel Friuli Orientale si formarono addirittura delle brigate miste) proprio con le brigate Garibaldi? Possibile che il fronte slavo non nutrisse una profonda rivendicazione territoriale sulla Venezia Giulia dopo che, proprio per raggiungere questo scopo, i comunisti furono addirittura disposti a scendere a patti con esponenti dell’esercito nazista? Anche in virtù di quest’ultima vicenda, può la strage di Porzus essere inquadrata solo e soltanto come una vendetta contro presunti tradimenti dell’unità antifascista (da che pulpito!) e contro millantati accordi col nazifascismo (da che pulpito!)?

            • Il tuo discorso parte dal presupposto che l’Italia si trovasse legittimamente nella Venezia Giulia e che le pretese slovene (o jugoslave) fossero invece completamente assurde. Anche volendo prendere in considerazione solo l’aspetto nazionale e nazionalistico della faccenda, la tua è una logica imperniata più che altro su pregiudizi anti(jugo)slavi. Ma sai veramente che cosa era la Venezia Giulia e dove passava il Confine di Rapallo? Sembrerebbe proprio di no, perché parli dei sentimenti antisloveni delle popolazioni della Slavia italiana senza nemmeno chiederti perché quel territorio si chiama appunto Slavia, scrivi Venecia al posto di Benečija (che poi è sempre la Slavia italiana), citi capitani partigiani dai cognomi a dir poco improbabili, dai per assodato che ci furono accordi tra il IX Korpus sloveno e i tedeschi senza fornire uno straccio di fonte e senza nemmeno spiegare chi sarebbero queste “frange slave dell’esercito nazista”, parli di una fantomatica brigata slovena chiamata Osvobodilna e io mi chiedo: ma osvobodilna de che? Sarebbe una riduzione di Osvobodilna fronta? E da quando in qua l’OF era una brigata?

            • Stai dicendo che i comunisti sarebbero scesi a patti con esponenti dell’esercito nazista in funzione anti-osovana? Ho capito bene? La prova schiacciante di questo scenario improbabile sarebbe una diceria orecchiata da uno degli attori in causa? Eppure di tutto si può accusare i partigiani jugoslavi tranne che di indulgenza verso i collaborazionisti. Quelli dell’Osvobodilna Fronta (che non era una brigata, ma tutto il fronte di liberazione sloveno) avrebbero rischiato di farsi fucilare per tradimento solo al fine di assicurarsi il controllo di una manciata di chilometri quadrati? Stesso discorso peraltro vale anche per gli osovani. Non so se hai mai visitato l’alta val del Torre o le Valli del Natisone (meglio note come Slavia Veneta o Benečija): si tratta di un territorio ridotto, povero e impervio punteggiato da sparuti paesetti al limite della sussistenza economica, tra i più remoti d’Italia. Forse ti è sfuggito questo commento di Tuco (compresi link): ti offriva abbastanza materiale per leggere la storia della lotta di liberazione sul confine orientale, comprese le beghe interne tra partigiani italiani (perchè grossomodo questo fu l’eccidio di Porzus), nel suo contesto internazionale, lasciando da parte miopie italocentriche e localistiche.Perchè In ballo c’era ben di più che la Slavia Veneta o Trieste. Poi hai presente il proclama Alexander? Perché tutti gli esegeti della tesi dell’espansionismo slavo evitano sistematicamente di citarlo quando si parla di Porzus?
              Peraltro il tema centrale del mio articolo è la scarsa o nulla inerenza delle foibe al fenomeno sociopolitico dell’esodo e adesso siamo qui a discutere di… Porzus?! Siamo passati dai ricordi personali – sicuramente dolorosi – di discriminazione di una “rimasta”, a un romanzo come quello di Sgorlon, notoriamente pressapochistico dal punto di vista storico (una vera trappola, anche Gianni Oliva – citandone passi – si è demolito da solo la sua credibilità di storico persino presso le associazioni degli esuli) a memoriali di membri della Osoppo o della X Mas. Cito un elementare bigino da “Questioni Metodologiche” dello storico Federico Chabod: “(…) noi troviamo, come criterio generale metodologico, quello della necessità di appurare se una fonte sia o no tendenziosa, e fino a qual punto; ma solo nei casi singoli, specifici, sarà possibile vedere come e quanto sia opportuno servirsi di una fonte anche se partigiana, si dovrà tener poco o nessun conto del racconto, che quel determinato cronista, diarista ecc. fa di un certo evento, mentre, in altro caso, si dovrà ugualmente tener presente la versione del cronista, come quella che rispecchia, non la sola impressione del cronista stesso, bensì tutta una corrente di idee e di sentimenti che si impersonifica in quel cronista“.
              A me pare proprio che tu parta da una presa di posizione aprioristica antislava portando come fonti memorie che non aggiungono nulla se non documentare l’adesione a quella stessa corrente di idee da parte di alcuni degli elementi coinvolti nei fatti dell’epoca. Una corrente di idee che come Nicoletta Bourbaki abbiamo descritto qui e che è proprio la tesi aprioristica che mi sono impegnato a smontare inquesto articolo.

            • @Socrates

              1) Quando parli di Cino Boccazzi, lo identifichi come esponente della X Mas. Uno sfondone notevole, per uno che si mette a fare la tapun ai zistron su quel che scrivono gli altri. Boccazzi era un agente dell OSS, paracadutato dagli inglesi in Friuli per agire da intermediario tra Osoppo e Decima per conto del generale Messe, capo di Stato Maggiore dell’Italia cobelligerante. Entrò nella Osoppo col nome “Piave”; poi fu “catturato” dalla decima, di cui fu ospite (sic) per tre mesi. Successivamente organizzò l’incontro tra Decima e Osoppo a Vittorio Veneto nel gennaio 1945. Ricordo en passant che nel 1955 Montanelli, in una lettera all’ambasciatrice americana Clara Boothe Luce, auspicava un colpo di stato filo-americano guidato da forze reazionarie e anche fasciste, e indicava proprio in Messe il possibile uomo forte del regime a venire. Quando i comunisti parlavano di reazione in agguato, non parlavano in astratto, ma si riferivano a questo tipo di gente e a questo tipo di manovre. Comunque la si pensi, su questo non si può glissare.

              2) Quando parli del rapporto di Manlio Morelli, ne citi solo due paragrafi, quelli che ti pare siano utili a sostenere la tua tesi. Ma dimentichi di dire che quel rapporto contiene un’informazione importantissima: situa temporalmente l’incontro tra Morelli (della Decima) e Boccazzi e “Verdi” della Osoppo alla fine di gennaio. Al processo di Lucca invece Boccazzi e Pasquinelli l’avevano posticipato alla fine di febbraio…. Inoltre dal rapporto emerge che le trattative erano arrivate a un punto molto avanzato, e che naufragarono per le resistenze di una parte della Decima – mentre secondo la vulgata sarebbero stati gli osovani a respingere le avances. Vedi un po’ tu quale possa essere la credibilià di Boccazzi, quando riferisce di aver saputo che i comunisti sloveni intrallazzavano coi nazisti per prendersi la Venezia Giulia…

              • Francamente non saprei definire una risposta se mi domandassero a quale nazionalità sarebbe dovuta spettare la Venezia Giulia all’epoca dei fatti: mi limito a ritenere inaccettabile qualsiasi forma di coercizione, sopraffazione e violenza da parte di qualsiasi etnia. All’epoca dei fatti, dalle testimonianze riportate (i termini “Slavia italiana” e “Venecia” sono citati testualmente da lì), risulta che fosse stato il fronte comunista a porre sul tavolo la questione nazionale in maniera irruenta ingaggiando una campagna d’odio sia nei confronti dei partigiani della Osoppo (i cui cognomi mi pare siano riportati correttamente) che, in generale, nei confronti degli italiani. Se le testimonianze trascritte sono discutibili sono ben lieto di confrontarle con altri documenti, così come sarei ben lieto di capire se anche i crimini che talvolta vengono imputati alla brigata Osoppo (omicidi di garibaldini, assunzione di squadristi del reggimento Alpini Tagliamento etc.) siano suffragati da qualcosa di più rispetto a voci simili a quelle di Boccazzi.
                La definizione di “brigata slovena Osvobodilna” proviene da un libro di recente pubblicazione (G. Pacini, “Le altre Gladio, la lotta segreta anticomunista in Italia 1943-1991”, Einaudi, Torino 2014), mentre la definizione di Boccazzi come “mediatore della Decima” riconosco essere un mio errore: intendevo evidenziare il suo ruolo sia di mediazione tra la Decima e la Osoppo, sia di figura proveniente dall'”ambiente” della Flottiglia (pur essendo prigioniero e pur non serbando grande stima nei confronti della Decima, infatti, godeva di “larga possibilità di movimento e di comunicazione via radio con lo stato maggiore del Real Esercito”, questo almeno quanto scrive N. Tranfaglia in “Come nasce la Repubblica”, Bompiani, Milano 2004, pp.46-54).
                Ci tengo infine a sottolineare che personalmente non ho alcun preconcetto o presunzione sulla materia: è proprio in virtù della mia ignoranza sull’argomento che ho deciso di sottoporre al giudizio di persone competenti i frutti delle mie modeste ricerche, e finora posso solo ritenermi soddisfatto: anche dagli ultimi commenti ho avuto modo di apprendere sia il reale significato della Osvobodilna, sia la reale consistenza di affermazioni come quelle di Boccazzi. Mi auguro che la discussione prosegua, almeno dal mio punto di vista, in maniera proficua.

                P.S.: Ritengo che la questione Porzus non sia irrilevante ai fini della trattazione dell’argomento cosiddetto “foibe”, in quanto pone in risalto il dilemma, oggetto del contendere anche in questo dibattito, del nazionalismo nella Resistenza slava.

                • Questa tua ultima – e onesta – ammissione di ignoranza dimostra quanto siano importanti riflessioni come questa di Lorenzo, che ha fatto un ragionamento complesso e documentato volto a decostruire le semplificazioni e le mistificazioni che ci propina il mainstream italiano. Tutti conoscono Porzus, tutti ne hanno sentito parlare, tutti sanno che è esistito un “disegno annessionistico slavo” dettato dalla pressoché congenita “furia sanguinaria” degli slavi, salvo poi scoprire che fornire interpretazioni semplicistiche ad avvenimenti complessi non è molto salutare. Dici di rifiutare la violenza, ma che cosa è la guerra se non violenza? La guerra è per definizione coercizione, sopraffazione e violenza, chi combatte col fucile in mano per la propria sopravvivenza non lo fa con metodi gandhiani, e di solito quando vince cerca anche di guadagnarci qualcosa. A guardare bene, la Slovenia non ci ha guadagnato poi molto, rispetto al prezzo che ha pagato in vite umane. Sono certa che se vorrai seguire le indicazioni e le fonti suggerite in questo post e nella discussione, converrai anche tu che in Italia va molto di voga sezionare al millimetro le pagliuzze altrui e ignorare bellamente le proprie travi, magari nascondendole in armadi rivolti verso il muro.

                • Non noto nessun miglioramento, anzi, era meglio quando citavi Sgorlon. Innanzitutto il documento del “comandante Milan Usicat” (al massimo il cognome potrebbe essere una presa per il culo: vsi scat – si legge usi szat – in sloveno significa “tutti a pisciare”) è un falso. Non è mai esistito un comandante (e nemmeno un semplice combattente) di tal nome né una brigata che si chiamasse semplicemente osvobodilna. Non so chi ne sia il produttore, ma il fatto che si trovi nell’archivio Osoppo qualche sospetto lo fa sorgere. D’altra parte i nazisti, che erano tutto meno che scemi, avevano scritto chiaro nel loro manuale di antiguerriglia Bandenkampf pubblicato a Trieste che bisognava dividere e contrapporre le formazioni partigiane tra di loro, quindi potrebbe anche essere opera loro (cosa del tutto trascurata dalla storiografia). E per favore erudiscici su dove – in quali documenti – si trova l’accordo tra formazioni naziste e della resistenza jugoslava in regione. O anche questo lo racconta Sgorlon?
                  Poi citi una serie di documenti della Osoppo – quindi fonte di una parte – senza alcun approccio critico. A ‘sto punto potresti citare i documenti e documentari nazisti che “dimostrano” che gli ebrei sono nocivi per il popolo tedesco (di cui peraltro fanno pienamente parte). Quanto a Kardelj “Il Pci non intraprenda nulla che possa rafforzare le mire imperialistiche su terre prettamente slovene della Julijska Krajina cui appartiene a nostro avviso sotto ogni aspetto la città di Trieste”, se leggi bene quello che dice è che Trieste appartiene alle terre slovene della JK, non che E’ slovena, che la sua popolazione sia in maggioranza o esclusivamente slovena. Quella presa di posizione di Kardelj viene però anche dopo che il CLN di Trieste (e a ruota il CLNAI) hanno continuato a rivendicare da parte italiana i confini di dopo la prima guerra mondiale, che includevano territori abitati esclusivamente da sloveni e croati (circa 500.000). E dopo che i partiti del CLN di Trieste hanno ripetutamente rotto l’accordo raggiunto in estate che prevedeva tra l’altro: popolarizzare presso i rispettivi popoli la lotta antifascista dell’altra parte e lotta serrata allo sciovinismo nelle proprie file. Ora, invece di fare questo in particolare il Partito d’azione triestino si mise a pubblicare volantini in cui invitava gli italiani A NON ENTRARE nelle formazioni partigiane jugoslave (dove già c’erano formazioni italiane, il battaglione Budicin in Istria, …) ed altre cosine del genere. Ed è proprio questo il motivo che ha portato alla rottura dell’accordo siglato tra OF e CLNAI. E se poi magari un po approfondisci Kardelj troverai che la questione dei confini era legata a quello che sarebbe stata l’Italia: se ci fosse stata un’Italia socialista (o giù di li) i confini non avrebbero rappresentato un problema, la VG poteva appartenere anche tutta all’Italia, se invece fosse stata una Italia ancora in mano alle vecchie classi dirigenti, con gli stessi obiettivi, allora la cosa cambiava. E visto il fatto che CLN di Trieste e CLNAI era abbarbicati ai confini di Rapallo, considerati intoccabili, viste le prese di posizione del Partito d’Azione triestino (e non solo), quale conclusione doveva trarne Kardelj (che aveva anche altri strumenti e informazioni per formarsi le sue analisi su quanto stava avvenendo in Italia)? Kardelj affermò esplicitamente che l’Italia sarebbe rimasta in mano al ceto dirigente di precedente, avrebbe mantenuto le sue mire sulla Jugoslavia e sarebbe diventata una base dell’imperialismo angloamericano contro la Jugoslavia socialista. Non credo abbia poi sbagliato di molto.
                  Dici che sarebbero stati gli sloveni a “provocare” – consideri evidentemente una provocazione che le formazioni partigiane slovene arruolassero gente e svolgessero altre attività in un territorio – Slavia Veneta, Benecija – in cui sicuramente viveva anche popolazione slovena, di cui però l’Osoppo negava l’esistenza. Solo la Osoppo avrebbe avuto il diritto di reclutare gente in quella zona? Poi evidentemente non leggi quello che ti ho scritto sopra, perché è chiaro che gli sloveni non erano una razza eletta immune da sciovinismo. Ma non puoi imputare la cosa ai comunisti, che lo sciovinismo nelle proprie file almeno hanno tentato di combatterlo, non di fomentarlo. Prova un po a leggerti il diario di Bolla e vedrai quanto l’uomo fosse ossessionato dagli sloveni, roba da psichiatra. Tanto più strano perché nei documenti sloveni l’Osoppo è menzionata di sfuggita.
                  Sugli accordi – concreti – della Osoppo con i fascisti ti ho già risposto. E su quanto commesso da osovani nei confronti di garibaldini trovi i doc nel libro della Kersevan su Porzus. Quanto alla Osoppo in genere: non tutti gli osovani erano Bolla o Moretti e non tutti gli azionisti erano come i triestini. C’era Solari (fondatore della Osoppo, azionista, poi passato al CLNAI), c’era Romano Marchetti ed altri che non erano ferocemente anticomunisti come Moretti – che dice esplicitamente di aver voluto le Osoppo in funzione anticomunista. Nella primavera del ’44 nella Osoppo c’è un vero e proprio “colpo di stato”, a Pielungo. Li era il centro d’arruolamento della Osoppo nell’estate del ’44, li c’erano uomini, magazzini, documenti… a quanto pare senza una adeguata vigilanza. Tutti sanno che ci sono i partigiani … anche i nazi, che infatti a luglio fanno una azione nella zona distruggendo magazzini, uccidendo gente ––. Per questo vengono esautorati e arrestati Candido Grassi (Verdi) e don Ascanio De Luca, ( Aurelio) ai vertici del Comando generale Brigate Osoppo. Al loro posto vengono nominati Manzin (Abba) e Commessatti (Spartaco), entrambi azionisti, che dopo poco raggiungono l’accordo per il comando unico tra osovani e azionisti: Abba sarà comandate della Divisione Garibaldi Osoppo, Commessatti vicecommissario politico. Ma il giorno dopo un gruppo di osovani, evidentemente fedeli a Verdi e Aurelio, intervengono armati a arrestano Abba e Spartaco (che rischiano la fucilazione), che sono sostituiti con due comandanti più “graditi” ai democristiani. Verdi e Aurelio sono liberati e reintegrati nella formazione e… di li a poco viene rotto il comando unico. Poi il comando della Osoppo resterà a questa gente qui.
                  Inoltre sulla Osoppo (e dintorni) esistono anche altri documenti oltre a quelli che citi. Lettera del comandante Ulisse e del commissario Alberto del Comando Unificato Osoppo – Garbaldi, Udine, 31.1.45 (in Archivio Repubblica Slovenia, fondo CC del PCS, unità archivistica 818), “… Questo Comando unificato ha ricevuto dal Comando unificato della pianura ordini verbali per lo scioglimento dei reparti e per la costituzione di nuovi reparti dai quali …. dovrebbero essere esclusi tutti gli elementi comunisti….”
                  Resoconto della riunione tra CLN di Forgaria, rappresentanti della Osoppo e rappresentanti della garibaldi, 4.2.45 ((in Archivio Repubblica Slovenia, fondo CC del PCS, unità archivistica 833) “…. il patriota Miro, comandante della 3^ Brigata Osoppo ha consigliato di sciogliere il CLN dando la possibilità ai membri del comitato di rassegnare le dimissioni a causa degli attuali momenti. Lo stesso Miro fece di tutto per convincere i membri del CLN a dimettersi. Visto che ogni mezzo escogitato non veniva a buon esito disse queste testuali parole:”fra qualche giorno ritornerò nella zona, e se i miei comandi credono opportuno lasciare queste persone nel CLN di Forgaria sarà come volete, differentemente sarete destituiti alle autorità”…”: (gli osovani cercano di destituire d’autorità evidentemente non gradito un intero CLN in una zona dove il “problema sloveno” proprio non sapevano cosa fosse) .
                  Relazione del comandante Mauri e del commissario Anteo Comando brigata Carnia, 12.2.1945 (in Archivio Repubblica Slovenia, fondo CC del PCS, unità archivistica 837): “ Il commissario Max del Btg. “Val But” della 2^ Brigata “Pal Piccolo” (Osoppo) insieme ad un patriota del suo btg. su richiesta del Comando tedesco si è recato a Tolmezzo per parlamentare con codesto comando…. Vari patteggiamenti di elementi responsabili dell’Osoppo con comandi tedeschi o cosacchi sono stati fatti, questo è l’ultimo in ordine cronologico.
                  Il colloquio si svolse così:
                  1) il tedesco: sappiamo che siete 600; invece erano 22 e i tedeschi lo sapevano
                  2) tedesco: lasciateci libero il passaggio e noi manderemo via i cosacchi
                  3) contro chi combattete?
                  Risposte:
                  1) non non possiamo disporre perché dipendiamo dal comando superiore
                  2) la questione del libero passaggio non è di nostra competenza
                  3) Combattiamo contro tutti gli imperialismi, se necessario anche contro quello “russo-anglo-americano”; combattiamo anche contro i comunisti
                  Il tedesco: ma allora voi siete dei nostri e noi possiamo fornirvi armi, vettovaglie e munizioni.
                  Risposta: non dimenticate che combattiamo anche contro di voi!
                  I due della Osoppo citati sono scesi a Tolmezzo in divisa e armati di mitra. Nella zona nord tutto ciò è risaputo da tutti e si è discusso variamente da formazioni e dalla popolazione civile, ora condannando ora irridendo la boria dei succitati osovani….”
                  Relazione di Spartaco del 20.1.45 ((in Archivio Repubblica Slovenia, fondo CC del PCS, unità archivistica 827) : “… i patrioti Miro e Vico, qualificatisi … comandante e Commissario della 3^ Brigata Osoppo reduci dalla montagna … si presentarono al Comando btg. Silvio Pellico, ove dichiararono:
                  1) di non riconoscere in veruna guisa la costituzione, autorità e la competenza del “Comando Unico della pianura friulana…. e di riservarsi pertanto con ogni mezzo e ad a costo di qualsiasi conseguenza, piena ed assoluta libertà di azione …. nella zona
                  2) di considerare completamente divergenti i loro punti di vista da quelli delle formazioni garibaldine … specie nei riguardi di una ventilata collaborazione con le forze partigiane slovene, alle quali – secondo essi – dovrebbe opporsi una decisa ed ostile resistenza.
                  3) Parlarono in termini poco chiari di “un’eventuale armistizio con i tedeschi”, chiedendo quale sarebbe in tal senso il pensiero ed il comportamento dei garibaldini
                  4) alla esortazione di usare tutta la maggiore prudenza ….. onde evitare sicure persecuzioni e retate, risposero di non temere gran che, dato le loro “alte protezioni”. Soggiunsero anzi essere ormai noto che i tedeschi puniscono con la morte i Garibaldini, mentre per i componenti della “Osoppo” si limitano tutt’al più alla deportazione in Germania.
                  5) In successivo e tempestoso colloquio con il comandante del btg. Silvio pellico il patriota Miro si è espresso in termini alquanto imprecisi, dichiarando che a qualunque costo, e senza badare a spargimento di sangue, egli avrebbe condotto e propagandato la più accanita lotta contro il “pericolo comunista e slavo” “. Ed è solo una parte dei doc che esistono.
                  Tutte queste cose sono accadute PRIMA di Porzus. Può anche essere che fosse opera diretta o indiretta dei nazi. Ma sono successe. Certamente nell’interpretazione datane dai garibaldini, ma mi paiono cose molto tranquille per la gravità di quello che accadeva.
                  Vedi, se magari tenevi conto di quanto ti ho già scritto e non cercavi di rilanciare con Porzus per riproporre una visione unilaterale delle cose – tutto si spiega in termini nazionali (con i garibaldini naturalmente “traditori” e osovani “patrioti immacolati”) – avresti risparmiato a me una perdita di tempo, a te un pistolotto non indifferente e ai WU uno spreco di spazio.
                  Un ultima cosa: ti ripropongo umilmente la richiesta di volermi spiegare l’”ideologia titina”.

                  • Mi scuso per la perdita di tempo e l’abuso di spazio: se può rappresentare una forma di consolazione tutte le risposte finora fornite rappresentano per me una preziosa testimonianza e un prezioso ausilio nell’approfondire ulteriormente la vicenda seguendo le fonti bibliografiche e i link proposti. Le voci di Boccazzi su accordi tra frange naziste e titini sono state estrapolate dal volume di Pacini menzionato nel precedente commento (volume dal quale provengono anche le fonti non bibliografiche fornite nei miei brani) mentre per “ideologia titina” intendevo il bagaglio culturale, storico e ideologico appartenente alla Resistenza slovena.

  38. La questione della convergenza tra antifascisti filo-occidentali e fascisti, nella cosiddetta difesa territoriale anticomunista durante l’inverno e la primavera del ’45, non può essere compresa se non si allarga il campo al contesto europeo. Non si può capire tale convergenza se non si considera la “dekemvriana” greca, con gli inglesi che reinsediano il re, si alleano alla destra monarchica, e sparano sui militanti comunisti nelle strade di Atene (decembre ’44) mentre Stalin sta a guardare, perchè la Grecia è fuori dalla sua sfera di influenza. E la crisi belga, quando gli anglo-americani disarmano la sinistra. E De Gaulle, che impone ai partigiani italiani in Francia di integrarsi nell’esercito regolare, pena l’internamento. Porzus stesso non si può capire se si ignora quel contesto. In quei mesi un nuovo ordine geopolitico sta prendendo forma: gli angloamericani hanno già portato dalla loro parte Valerio Borghese, e Salvatore Giuliano fa la spola tra nord e sud Italia… Insomma, cerchiamo di essere meno confine-orientale-centrici, oltre che meno italo-centrici.

    Su contesto europeo nel passaggio cruciale dell’ inverno ’44/’45, si veda R. Battaglia, “Storia della Resistenza Italiana”, Einaudi, pp.439-452.

    Su Salvatore Giuliano doppiogiochista tra RSI e alleati, si veda questo aricolo di Santo Della Volpe sul blog di Giuseppe Casarrubea.

    Sui contatti tra Osoppo e X Mas si vedano i documenti desecretati dell’ OSS, sempre sul blog di Casarrubea.

  39. […] è solo un piccolo addendo al bellissimo post di Lorenzo Filipaz «Foibe o esodo? Frequently Asked Questions sul Giorno del Ricordo», che negli ultimi due giorni ha avuto un vero boom di […]

  40. Qui si era già fatto notare che Cristicchi aveva ripreso brani scritti da “La Compagnia dell’Anello”. Qui un intervista in cui uno dei componenti del gruppo neofascista dice esplicitamente che Cristicchi si è ispirato a loro ed elogia Magazzino 18 ed il giorno del ricordo:
    http://www.barbadillo.it/37200-bortoluzzi-la-compagnia-dell-anello-da-40-anni-contro-sauron/

    • Questa volta sono io a ringraziare te. Molto interessante, sia la cosa di Cristicchi, ma anche il fatto che le canzoni della Compagnia dall’anello siamo diventate una sorta di “canzoni popolari” per le organizzazioni degli esuli e, ancora più interessante, che siano cantate in cerimonie ufficiali!!! Da l’idea del retroterra culturale e politico delle organizzazioni degli esuli, ma anche di quello dello Stato.

  41. Si il pezzo in cui racconta dei bambini che cantano la loro roba è puro ventennio. Devo dire che più cose imparo sul nazionalismo italiano attuale e delle sue narrazioni sul confine orientale più sale lo schifo. Queste cose qui in Trentino sono inimmaginabili.

  42. A dirti la verità sono anche mezzo ferrarese (di Codigoro, ci ho vissuto sino ai 13 anni), ma da quando ho finito l’università mi sono stabilizzato in questo nido alpino, che per carità ha i suoi problemi e la sua gentaccia, ma nulla di paragonabile ad un neofascismo esibito e istituzionalizzato come si vede in alcuni posti.

  43. […] durante e subito dopo la seconda guerra mondiale. Questo dibattito e soprattutto questo post (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=20327#more-20327 ) di Lorenzo Filipaz sul blog Giap mi hanno spinto a cercare di ricostruire una vicenda legata […]

  44. […] Filipaz è autore di un post indispensabile pubblicato su Giap, ed emblematicamente intitolato #Foibe o #Esodo? «Frequently Asked Questions» per il #GiornodelRicordo. Lo storico Piero Purini e il gruppo di lavoro «Nicoletta Bourbaki» hanno prodotto un documento […]

  45. […] Foibe o Esodo? “Frequently Asked Questions” per il Giorno del ricordo: un testo di Lorenzo Filipaz, triestino, figlio di esule istriano, di ascendenza slovena dal ramo materno. Ventiquattro chiarimenti in risposta ad altrettante domande basate sull’insieme di stereotipi e omissioni che potremmo chiamare “ideologia del Giorno del ricordo” […]

  46. […] è solo un piccolo addendo al bellissimo post di Lorenzo Filipaz «Foibe o esodo? Frequently Asked Questions sul Giorno del Ricordo», che negli ultimi due giorni ha avuto un vero boom di […]